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«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

I racconti – Daniele Del Giudice

 

racconti - del giudice

I RACCONTI
Daniele Del Giudice
Einaudi 2016

Di Del Giudice non si può non dire che sia un grande scrittore. È quasi tautologico ed è vero. Tuttavia quando si prende in mano un libro, ciò che si leggerà non sarà lo scrittore in quanto entità autodefinita dalla firma e dal contorno della sua bibliografia più eventuali interventi pubblici, ciò che si leggerà sarà un oggetto molto ben definito in termini volumetrici da una forma della pagina, un numero di pagine e un testo ben circoscritto.
Questa è la definizione iperrealista della lettura. Ma è anche l’unica con un minimo di oggettività, molto limitata dalla successiva interpretazione e fruizione del testo, ma di certo meno aleatoria di un’interpretazione che mescoli una particolare opera con l’opera complessiva, la figura pubblica e l’eventuale fascino personale dell’autore.

Un libro è un oggetto.

Con I racconti di Del Giudice, e un po’ con tutte le raccolte di racconti, c’è un rischio in più introdotto dalla mano dell’editore che ha messo insieme, fisicamente non idealmente, oggetti che nascevano separati. Quei racconti non erano stati scritti insieme. I racconti di Del Giudice nascono per mano di Einaudi, come per molti casi di analoghe raccolte. Quindi c’è un interprete ulteriore che interviene durante la lettura. Di questo quasi sempre chi commenta non tiene conto.

Io invece ne tengo conto, perché solitamente la mano editoriale peggiora il risultato. La somma di racconti, di solito, peggiora la lettura dei singoli. La peggiora non perché l’editore sbagli qualche manovra o compia chissà quale peccato. Affatto, la peggiora solo per il fatto di assommare ciò che nasceva distinto, intruppare fisicamente in un volume dotato di una forma spazio-temporale precisa testi che nascevano con altre forme, individuali, solitarie, in qualche caso precarie o bizzarre. Il volume che raccoglie compie comunque un atto d’imperio, una inevitabile forzatura, l’atto di sommare e rilegare non è un atto neutro, è un atto che modifica anche la sostanza.

È per questo motivo che anche la sensazione ricavata dalla lettura risulta frammentata e contraddittoria. Se nei i singoli racconti si legge la traccia modernista e malinconica di Del Giudice e anche la sua ricerca di scoprire una forma a ciò che trascende le forme attraverso una descrizione realista del mondo, il volume nel suo insieme, ovvero la lettura in sequenza dei racconti, ovvero l’attribuire una forma spaziotemporale arbitraria e innaturale a me a lasciato se non proprio l’amaro in bocca almeno un senso di noia da trascinamento, quella noia che si produce quando si anticipa la direzione di una scrittura, quando insomma si esce dal testo e si percepisce la stanchezza dello scrivente.

Non ho una soluzione da proporre. Le raccolte di racconti si devono pur fare. Forse bisognerebbe provare a leggerli in ordine casuale, oppure leggerne solo uno o due, poi leggere altro di tutt’altro autore e genere, poi altri due seguiti di nuovo da altro genere e mano e così via. Diventa laborioso e non ho idea se il risultato migliorerebbe.

Alcuni dei racconti spiccano in modo evidente. i primi due, Nel museo di Reims e L’orecchio assoluto, che sono anche i più lunghi, hanno ritmi lenti, cadenzati. Del Giudice gioca in entrambi con un incastro malefico da sciogliere; la cecità incombente e il nuovo amore per la pittura, la fascinazione musicale del pazzo omicida. Cambia strategia per dipanare il racconto ma da entrambi traspira un senso di sconforto e di ineluttabilità, oltre che di chiusura nei confronti del mondo. Sono racconti di solitudini imposte con violenza silenziosa, quella della cecità progressiva e quella della follia.
Alcuni dei successivi sono meno memorabili, in altri emerge evidente la curiosità di Del Giudice per i segni inequivocabili di un’epoca nuova che si affaccia con aggressività dominata dalla tecnologia. Ecco allora Evil Line, con qualche venatura futurista da fine anni ’80, inizi ’90. Dillon Bay risuona di echi misteriosi e lugubri tipici delle manovre militari che ritroviamo in altri autori che hanno dato forma all’insensatezza di fondo di ogni esercito.
Il volume va in diminuendo nel finale, con racconti di minore intensità, frastagliati, un po’ stranianti.

Note:
– il volume è preceduto da un’introduzione accorata di Tiziano Scarpa, poi ne ha scritto Raffaele Manica su Alias de Il Manifesto tirando qualche frecciata a Scarpa, il quale si è risentito e ha risposto che non è vero niente quello che dice Manica. Bisticci.

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Questa voce è stata pubblicata il 30 aprile 2016 da in Autori, Del Giudice, Daniele, Editori, Einaudi con tag , , , .

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