«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
MELANCOLIA DELLA RESISTENZA
László Krasznahorkai
Traduzione di Dora Mészáros e Bruno Ventavoli
Zandonai 2013
[Libri dispersi]
Ho letto per la prima volta il nome di László Krasznahorkai l’anno scorso, quando se ne parlò come uno dei possibili vincitori del premio Nobel per la Letteratura. Mai sentito prima, o forse sì e dimenticato a causa della difficoltà di pronuncia e scrittura. L’anno scorso però mi si accese una luce su quel nome e desiderai conoscerlo.
In italiano, dell’opera di László Krasznahorkai, è esistito per breve tempo solo questo Melancolia della resistenza, ora purtroppo non più disponibile causa fallimento dell’editore. Non sono riuscito a procurarmelo e ho dovuto ripiegare sull’edizione inglese The melancholy of resistance, tradotta da George Szirtes per New Directions che lo pubblicò ne 2002. L’opera originale è del 1989. Il regista Béla Tarr ne fece una trasposizione cinematografica, e francamente non riesco a immaginare come ci sia riuscito.
Il testo è di una difficoltà formidabile. Una palude nella quale ho rischiato più volte di sprofondare.
Qualche elemento. La lingua di Krasznahorkai è quanto di più distante dalla tipica sintassi inglese. Probabilmente più facile risulta la lettura in tedesco, per chi lo conosce, o in russo, se esiste la traduzione.
Lo stile di Krasznahorkai è fatto di “treni di pensieri” (train of thought) che possono durare pagine, raramente sono più brevi di una pagina, paragrafi che si susseguono senza soluzione di continuità, senza lo stacco che concede uno svago. Voi capite quindi l’innaturalità di una loro trasposizione in inglese, che il traduttore tuttavia si è sforzato di mantenere per non stravolgere il testo in questa sua caratteristica essenziale. Molti altri autori usano periodi lunghi. Gli argentini, Onetti ad esempio, spesso allunga a dismisura i periodi, con incisi, rimandi, perifrasi, compone una danza di parole che suona e avvolge. Altri usano stili del tutto diversi, prendete Bernhard che scarica il gelo nevrotico della follia su lunghe frasi che si tendono come grida rauche.
Ma nessuno di questi o altri che ho conosciuto somiglia a Krasznahorkai, alcuni russi sono quelli che più si avvicinano e non a caso viene accostato a Gogol, anche se è ancora un’altra cosa rispetto a Gogol. È appunto una palude, sono sabbie mobili i suoi periodi che si allungano per gigantismo, non per seguire una melodia o tendere una corda, ma per occupare uno spazio scarno, per opprimere, soffocare. Toglie l’aria leggere Krasznahorkai perché non si trova mai il punto per prendere il respiro senza perdere la presa sulla concentrazione. Scivola via di continuo la concentrazione, come un apneista che non riesca a raggiungere il bordo della vasca e sia costretto a riemergere.
Krasznahorkai impone fatica, pretende avversione, obbliga a resistere alla tentazione dell’abbandono. L’oppressione della lettura si riflette nell’oppressione della storia. Questo è straordinario di Krasznahorkai.
[…] he gazed at it as if it were the full stop at the end of a sentence, since, here and now, it signalled the end not only of his circular tour but of his last train of thought, so that after his extended detour and eventual ‘release from the massive weight of thinking’ he should find himself back where he started, returning home with a never-before-experienced sense of lightness.
[…] l’osservò come se ci fosse stato un punto alla fine della frase, poiché, qui e ora, avrebbe comunicato la fine non solo del suo tragitto circolare ma anche del suo ultimo treno di pensieri, in modo tale che dopo la lunga deviazione e il conclusivo ‘sollievo dal peso ingente del pensare’ lui avrebbe ritrovato se stesso al punto di partenza, un ritorno a casa con un mai-provato-prima senso di leggerezza.
(traduzione mia)
La storia è cupa, notturna e grottesca. I contorni degli eventi sono sfumati. I personaggi recitano sul filo dell’ambiguità. Una donna su un treno fa ritorno a casa da una visita ai figli. Uno zotico corteggiatore la importuna. Il paese o la città di arrivo è scura per le ombre della sera ma anche per i lampioni stranamente spenti, la donna percepisce un’atmosfera minacciosa, come di un mondo improvvisamente divenuto più ostile, aggressivo e violento. Irriconoscibile. Osserva capannelli di persone, ombre sfuggenti, si affretta spaventata. Sta sognando forse? È un incubo dovuto alla brutta avventura capitatale? O davvero qualcosa è cambiato? Incrocia un veicolo di forma e dimensioni mostruose, decorato con iscrizioni in una lingua sconosciuta. Legge un annuncio: “La balena più grande del mondo e altri sensazionali segreti della natura”.
Inizia così, disorientando. E prosegue allo stesso modo. Il carro di dimensione e foggia mostruose contiene in effetti una enorme balena, si tratta di un circo composto da quest’unica e inconcepibile attrazione. Al seguito del circo una plebaglia di ceffi scuri, minacciosi, incomprensibili che stazionano a gruppi nel centro della città. Nessuno sa chi siano, cosa vogliano, che macchinazione stia avvenendo. Una coltre di scuro mistero scende sulla città, si percepisce l’imminente catastrofe, come di un’epoca che si avvia a una fine tragica. Due sono i personaggi principali: il signor Eszter e la moglie. Il primo celebrità locale e intellettuale intimista che si ritira dal mondo. La seconda, ripudiata dal marito, tramando e affabulando compie il percorso opposto, diventando la figura politica di riferimento. Sono due traiettorie parallele e opposte a disegnare la storia del libro, entrambe attraversano l’assurdità delle circostanze e da tale assurdità ne sono determinate. C’è un messaggio politico evidente nei personaggi di Krasznahorkai, deformati dall’attrazione della sfera pubblica e di quella privata, reagiscono in modi antitetici alla minaccia del mondo, ritirandosi o cavalcandola, rinchiudendosi nell’intellettualismo atrofizzante o trovando le vie del populismo.
Krasznahorkai disegna molti piani di lettura, confondendoli nell’instabilità del terreno narrativo e nell’oscurità della trama.
La balena, questo corpo smisurato di mostro, un leviatano rinchiuso in una ancor più smisurata e mostruosa bara semovente è la presenza catalizzante della storia, l’entità che attrae su di sé ogni spiegazione, cancellandole. È una presenza immobile e ostile, un presagio di catastrofe giunto per vie sconosciute. Di nuovo Krasznahorkai lascia filtrare un messaggio politico esplicito riguardo all’Ungheria in uscita dal totalitarismo, un’epoca buia che lascia il posto a un futuro non meno inquietante.
Densa, oppressiva, la narrazione si poggia con tutto il suo peso sul lettore, mettendolo alla prova. Un libro difficile, agli antipodi rispetto al canone della letteratura attuale di maggior successo, rivolto a una nicchia di lettori con gli strumenti per sopportarne il tedio e la cupezza. Eppure ha i tratti della grande opera, Krasznahorkai ha il passo e la fermezza del grande scrittore. Melancolia della resistenza è il libro dell’inutilità e dell’insensatezza del pensiero, della vacuità dell’intraprendenza a fronte del corso degli eventi.
Ha un finale strepitoso, un colpo di coda geniale e sconcertante. Non ve lo racconto, è una descrizione molto precisa, iperrealista, lunga e di abbagliante meticolosità. È la descrizione dell’elemento essenziale, del processo che sta alla base di tutto, del ritorno alla terra.
Difficile da leggere. Difficilmente lo si dimentica. Semmai Krasznahorkai venisse pubblicato in italiano correrò a comprarlo. Senz’altro festeggerò se gli daranno il Nobel.
Note:
– per chi legge l’inglese (o chi si fa aiutare da un traduttore online), su Critique si trova un commento molto bello e appassionato.
– anche il New Yorker ha un bel pezzo con il traduttore che descrive lo stile di Krasznahorkai come un flusso lavico ed è un’immagine particolarmente azzeccata.
– il lavoro culturale propone una breve ma ottima sintesi delle principali opere oltre che alcune immagini dal film di Béla Tarr.
Fortunatamente ha rivisto la luce grazie a Bompiani.
Grazie mille. Non conoscevo il successivo film del 2000. Le sono riconoscente.
Salve. E’ la prima volta che scrivo sul suo blog, avendolo scoperto da poco. Complimenti vivissimi, mi trova completamente d’accordo sui principi che la guidano nella scelta delle letture e nell’analisi critica, anche se a volte non concordo pienamente il giudizio su alcuni libri: parlo dei pochi che ho letti. Scrivo per segnalare che forse il film di Béla Tarr cui accennava non è Melancolia della resistenza, ma Sàntàntagò, uscito quest’anno presso Bompiani. Buon anno di lettura!
Salve, grazie per il commento e sono molto d’accordo con il non concordare sempre con i giudizi altrui.
Per l’indicazione del film, mi è stata data da una persona esperta di cinema, cosa che io non sono affatto. Ora cerco di verificare, da qui (http://hcl.harvard.edu/hfa/films/2006winter/tarr.html) vedo che la collaboraizone tra Tarr e Krasznahorkai si è protratta, per cui potrebbero essere veri entrambi i riferimenti cinematografici (il film di Tarr tratto da Satantango mi pare essere del 1994 ed avere lo stesso titolo del libro), ma cerco di avere una conferma.
Leggendo la sinossi di “Werckmeister Harmonies” (“Le armonie di Werckmeister”), film del 2000, a cui fanno riferimento le immagini del pezzo de Il lavoro culturale – sempre che le didascalie siano corrette – direi senza dubbio che si ispira a “Melancolia della resistenza”
(sempre da qui: http://hcl.harvard.edu/hfa/films/2006winter/tarr.html).
Gran bel libro, concordo, Purtroppo Krasznahorkai meriterebbe maggior attenzione da parte dell’editoria italiana. Ti segnalo altri nomi interessanti dell’est Europa, zona che mi sembra particolarmente vivace nella narrativa: Gospodinov in Bulgaria e Cărtărescu in Romania sono nomi da sottolineare in rosso.
Gospodinov e Cărtărescu me li hanno suggeriti di recente. Li leggerò. Grazie.
Lo lessi in italiano prendendolo in prestito in biblioteca; non lo ricordo così ostico in italiano, angosciante e cupo sì ma altrettanto coinvolgente. Chi se la dimentica la balena!
P.s. non sai quanto mi è dispiaciuto per Zandonai, essendo vicina sono andata alla svendita, tutti i libri nei cartoni a un misero euro, ho fatto incetta per salvarne qualcuno dal macero.
Mi hai incuriosito. Se riuscirò a trovare l’edizione italiana proverò a rileggerne qualche parte.