«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
VICINO AL CUORE SELVAGGIO
Clarice Lispector
Traduzione di Rita Desi
Adelphi 1987
Questo è il primo libro di Clarice Lispector che leggo, scelto a caso. Il rischio della curva a banana mi è perfettamente noto, naturalmente.
Se dovessi scegliere un aggettivo per descriverlo direi incompiuto, nel senso di impresa incompiuta, non nel senso di interrotta, un’opera non realizzata nella sua pienezza, in alcune parti realizzata, in altre no. D’altronde è fin troppo facile giustificare tutto con il fatto che Clarice Lispector aveva diciannove anni quando venne pubblicato Vicino al cuore selvaggio nel 1944, in Brasile.
Ho un dubbio: c’entra davvero la giovane età oppure Clarice Lispector è proprio questo tipo di scrittrice? Geniale e sublime nell’arco del singolo paragrafo, ma inadatta a una narrazione strutturata, alle fatiche della carpenteria letteraria? Questa è l’incompiutezza che io ho trovato in Vicino al cuore selvaggio, un libro che contiene squarci di meravigliosa purezza narrativa in una trama banale che si appesantisce stancamente via via che procede. La parte migliore è la prima metà, onirica, seducente, calcolata, senza sbavature.
C’erano molte cose da vedere, anche. Certi momenti del vedere contavano come «fiori sulla tomba»: quello che si vedeva cominciava a esistere. Eppure Joana non si aspettava la visione in qualche miracolo, nemmeno se annunciata dall’arcangelo Gabriele. La coglieva proprio in quello che aveva già scorto, ma che vedeva improvvisamente per la prima volta, improvvisamente intuendo che era qualcosa che viveva sempre. Così un cane che latrava, ritagliato contro il cielo. Era qualcosa d isolato, non c’era bisogno d’altro per spiegarlo…
Clarice Lispector è capace di brani come questo, lirico, perfettamente misurato eppure con un senso di mistero, una mano che si protende e coglie una certa visione, un modo di guardare fuori dal comune.
Joana è la protagonista, insieme a Otávio e a Lidia, di un distacco, lento ed enigmatico, osservato come evento di natura, inframezzato da squarci lirici. La trama come detto serve da semplice canovaccio per gli assoli di Clarice Lispector.
Il libro procede con lentezza, si diluisce nelle pagine e nelle ore, poggiato su uno strato di noia calda, lascia una seduzione antica, un fascino traslucido, una sensazione di fredda bellezza che aderisce inodore, senza forma, muta. Sembra più un’autopresentazione dell’autrice che non un narrare quello che si legge. Una recita, un testo slegato e frammentario. Frammenti di poesia senza pathos, a ben vedere, un gelo che forse nasconde il travaglio dell’incomunicabilità.
della Lispector ti consiglio “Legami familiari”, una raccolta di racconti sicuramente più matura rispetto al libro che hai recensito. Originale nella scrittura e anche nello svolgimento delle trame. Per quello che mi riguarda credo che la Lispector è sicuramente una scrittrice interessante, che merita altre letture.
grazie, mi serviva una indicazione, non avevo idea cosa provare a leggere nuovamente della Lispector, che è certamente un talento. Mi procurerò Legami famigliari