«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
1948
Yoram Kaniuk
Traduzione di Elena Loewenthal
Giuntina 2012
Alcuni scrittori israeliani sono tra i grandi scrittori della contemporaneità. Lo sono perché sorprendenti nell’arte del romanzo come tutti i grandi scrittori, ma nel loro caso c’è un surplus di sorpresa dovuto allo scarto rispetto alla narrazione codificata della storia d’Israele che siamo abituati a sentire, plasmata secondo convenienze e contingenze. Siamo abituati a sentire una certa retorica provenire da una parte politica, un’altra retorica da un’altra parte. Siamo immersi in costruzioni artefatte riguardo la storia di Israele, ci hanno drogato di retorica e di storytelling interessato. La verità eè che noi non sappiamo niente della storia di Israele e ignoriamo ogni cosa delle sue persone, ebree e non ebree.
Per questo scrittori come Yoram Kaniuk – di cui già avevo letto il bellissimo Un arabo buono – e l’altrettanto grande Yizhar S. che hanno ripercorso più e più volte i solchi della memoria nei giorni e mesi della nascita di Israele, quelli della guerriglia contro gli inglesi, della guerra con gli eserciti arabi nel 1948, del difficile rapporto con gli ebrei della Shoah e con gli ebrei russi. Quella memoria che non ha niente a che vedere con la retorica che abbiamo sempre sentito, con quelle ripugnanti semplificazioni diffuse da qualunque lato della barricata ci si metta. La storia raccontata da autori come Yoram Kaniuk o Yizhar S. e anche quella più recente dei libri di Yehoshua Kenaz è tutta un’altra storia, con le infinite contraddizioni, anse, meandri, negazioni e oscenità della vita vissuta e della storia vista da sotto, dal livello dei piedi degli uomini, respirando polvere e guardandosi alle spalle, invece che dall’alto delle piattaforme dei megafoni.
È tutta un’altra storia. Sono parole e frasi e immagini tutte diverse da quelle a cui siamo abituati. A volte sono addirittura frasi e parole che non si immaginerebbe nemmeno che sono israeliani quelli che le pronunciano. Se dicessimo che sono proprio israeliani a dirle, verremmo additati da quelli coi megafoni. Ci hanno insegnato che a dirle sono i nemici di Israele, gli assassini, ci hanno raccontato che sono le frasi dei fiancheggiatori dei carnefici. E invece quella reale – perché io penso che la storia raccontata da Kaniuk e Yizhar sia quella reale – è tutta un’altra storia, con un’altra voce, altre sensibilità, altri modi di guardare, altri modi di sentirsi vivi e di rispettare la vita degli altri pur senza rinnegare la morte e le guerre. Per questo io credo che questi siano non solo grandi scrittori, ma anche grandi uomini. Le due cose non sempre vanno insieme.
1948 è un libro memorabile. Un grande libro. Lo si può dire senz’altro. A modo suo squinternato, irriverente, funambolico in quel ritmo serrato, a tratti quasi ubriacante. Il fiume di violenza che riempie le pagine diventa surreale e grottesco nelle parole di Kaniuk, come lo è stato in altri libri di grandi scrittori che hanno parlato della guerra e della follia della guerra e della follia dell’odio che rende gli uomini allo stesso tempo assassini e carne da macello. La tragedia che si fa commedia, è questo uno dei fili che Kaniuk tende in 1948.
Il mio amico che era con me mi raccontò che era stato spedito a controllare i morti sulla montagna. Ce ne erano alcuni, così disse, che si erano chiaramente dati la morte da soli, con delle granate o un colpo di fucile. C’era un casino tremendo. I comandanti erano spariti e si erano nascosti. Alcuni avevano combattuto ma senza un ufficiale di coordinamento non sapevano di preciso cosa fare, avevano sparato senza sapere se sparavano ai loro o al nemico, che aveva combattuto con un coraggio sorprendente, usando eccellenti stratagemmi. Allora si decise in silenzio, senza dire una parola, che di quella battaglia non si doveva dire una parola.
1948 è anche lo scrosciante fluire della memoria di Kaniuk che corre senza disciplina, non ammaestrata dalla retorica, lungo i solchi di quei giorni. Tutto travolge, scavalca, ripete, richiama, forse in modo scandalosamente reale, forse inventando cose mai accadute, parole mai dette. Ma è proprio questo correre all’impazzata che stravolge il canone della storia confezionata. Non c’è tempo per le convenienze e le supponenze quando ti scapicolli tra decine di morti sventrati, scoppiati, saltati in aria come rane col petardo nel culo, e ancora di più quando non c’è un senso al massacro, sì certo, stavano fondando uno stato, quello era il senso ripetuto dai megafoni, ma visto dal livello dei piedi degli uomini, degli israeliani, degli arabi, dei bosniaci, di quelli che saltavano in aria come marionette al teatrino, non c’è più nessun senso, ma solo una gran puzza, fiumi di merda e sangue, cose incomprensibili da tanto che sono orribili e perfino ridicole, c’è solo un gran ingorgo di sbudellamenti nel quale nessuno sa cosa sia giusto e sbagliato, bene e male, nessuno sa nemmeno se vivrà ancora un po’ oppure è già pronto a fare la rana che scoppia.
Yoram Kaniuk scrive un libro che lui stesso definisce scorretto, un libro serio sulla cosa più buffa che gli è capitata in guerra. Così lo definisce. E gli basta questo per polverizzare ogni retorica, megafono e semplificazione.
Grande libro. Bellissima la traduzione di Elena Loewenthal che riesce a restituire tutta l’ironia spietata dello stile forsennato di Kaniuk e bravi come sempre a casa Giuntina.
È successo oppure no? In un modo o nell’altro, nessuna memoria ha uno Stato, nessuno Stato ha una memoria. Posso ricordare oppure inventare un ricordo, e al tempo stesso inventare uno Stato o pensare che in passato fosse diverso. Nessuno Stato può essere diverso se prima non è stato non-diverso.
Ma la cosa che più conta è se è vero che il tizio stordito dell’ospedale mi ha effettivamente detto – dagli abissi del suo pianto e senza che gli avessi chiesto un bel niente – che tutto nella vita e forse anche nella morte (anche se ha ammesso di non esserci ancora dentro) si fonda su tre princìpi: Vendetta. Tradimento. Invidia. Gli ho chiesto ragguagli sull’amore e lui ha detto: Amore – solo se è tradito o se è per scherzo. L’amore viene dopo il tradimento, ma per te verrà prima.
Finalmente l’ho preso in biblioteca e lo sto leggendo, ripasso quando l’avrò finito.
Avendo apprezzato molto Un arabo buono metto fra i desiderata questo, grazie.
questo è imprevedibile, sconcerta