«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
QUESTA VITA TUTTAVIA MI PESA MOLTO
Edgardo Franzosini
Adelphi 2015
Piccoli libri, cesellati, intagliati con una punta fine di acciaio fatta apposta per le minuzie, i lembi di tessuto appena risvoltati, le piegoline del pantalone, la ciocca di capelli fuori posto, il pensiero che scivola di lato e il dialogo che rimane sospeso come vapore in una cucina.
Edgardo Franzosini è scrittore verrebbe da dire perfettamente adelphiano, minimale ed estroso, ritrattista artigiano di figure a mezz’ombra, egli stesso autore di libri di poca mondanità che mettono in posa personaggi minori sotto una luce obliqua, che ne esalta le anomalie.
Questa vita tuttavia mi pesa molto ha come protagonista Rembrandt Bugatti, che sulle prime potrebbe confondersi con un personaggio di fantasia con quel nome che si porta dietro. Invece è stato un personaggio reale, scultore animalista trasferitosi da Milano nella Parigi dei primi del Novecento e fratello del celebre Ettore Bugatti, costruttore di potenti automobili.
Franzosini lo scova tra le pieghe della memoria svanita e lo trascina alla luce. Il libro parla di lui, inventando tutto quello che serve per restituire storia a uno che non ce l’ha, ma ricollocandolo anche là dove viveva e dove i suoi contemporanei lo conoscevano e lo incontravano per la via.
Rembrand Bugatti crea forme di animali con le mani e tra le sue mani e gli animali, spesso selvatici ed esotici che ritrae negli zoo, si crea una vicinanza, un rapporto muto, una coesistenza indomita ma carcerata. Bugatti, sembra dire Franzosini, è vissuto un po’ come gli animali che sagomava e che rimaneva ad osservare immobile, a lungo, come a volersi appropriare di quelle forme e quei movimenti. Una vita per lo più solitaria, spesso sul fondo di una stanza, appresso a un muro, concentrata nelle mani e negli occhi e sulle poche esigenze quotidiane, talvolta aiutato dal fratello più pratico e solido. In tutto questo c’è una strana eco vangoghiana, non ricordo se riconosciuta o soltanto ereditata.
Rembrandt Bugatti finirà di sagomare animali con lo scoppio della guerra che porterà via tutto, zoo e animali compresi. Bugatti si porterà via da solo, silenzioso, come aveva sempre vissuto.
Davanti al portone del numero 3 di rue Joseph-Bara, un palazzo color grigio piombo e con il tetto di tegole che non ha conservato nulla dell’eleganza di un tempo, è seduta, come al solito, Madame Soulimant. Madame Soulimant è la custode. Lì davanti al portone, passa quasi tutta la giornata – e d’estate spesso anche parte della notte -, spostando la sedia di legno dal piano impagliato da destra a sinistra del piccolo arco d’ingresso a seconda dell’ora.
«Buongiorno, Monsieur Bugatti» dice rivolgendosi a un uomo che sta attraversando l’androne.
Inizia così e fino alla fine è lieve come una passeggiata autunnale.
Note:
– un pezzo su Rivista Studio scritto da Edgardo Franzosini su Rembrandt Bugatti.
– Giorgio Vasta su Edgardo Franzosini per minima&moralia.