«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
LA CIVETTA CIECA – TRE GOCCE DI SANGUE
Sadeq Hedayat
Traduzione di Marco Guarnaschelli, Reza Gheissarie, Mario Carresi, Mario Casari
Feltrinelli 2006
Chi legge Bussola di Mathias Enard difficilmente rimane immune al fascino delle molte citazioni che l’erudito autore fa da La civetta cieca di Sadeq Hedayat così come alla storia dell’intellettuale in autoesilio parigino concluso col suicidio e al suo ruolo dirompente nella letteratura persiana del Novecento. Le prima trenta o quaranta pagine di Bussola sono un’elegia a Hedayat che colpisce anche il lettore svagato e facilmente lo incuriosisce. Io di Bussola, opera mediocre nonostante il premio prestigioso, trattengo solo questo, ma non è poco.
Noi non possiamo vivere lo sgomento perbenista che la prosa dirompente dell’oppiomane gettò nella molto tradizionale e istruita società persiana di metà Novecento, siamo ormai troppo lontani per comprendere il vento di ribellione che con Hedayat spirava nei giovani persiani mentre lo leggevano di nascosto dai padri o dai mestri. Ci manca purtroppo questa parte fondamentale dell’essenza dello scrittore, parte che di certo ebbe anche un peso importante nella fine tragica, possiamo solo apprenderne i tratti principali dalle prefazioni, postfazioni e commenti degli storici e dei narratori. Tuttavia, pur leggendolo da una distanza ampia e con occhi comodamente europei, Sadeq Hedayat continua a esercitare un fascino potente con la storia de La civetta cieca. La messinscena di un personaggio che recita la parte di alter ego dell’autore, malinconico, disperato, tormentato dalla vita, dall’arte e dall’amore. Parigino di lettere immerso nel decadente romanticismo ma anche persiano nei pensieri e nei suoni, mescola due culture al tramonto e due fascinazioni immemori con una storia ambigua, che interroga, confonde e non svela.
La narrazione di Hedayat era ritenuta scandalosa e pericolosa nella Persia dello Scià, un’opera influenzata dalla tradizione locale, dalla Francia e dal misticismo indiano. L’oppio nel quale l’uomo e i suoi tormenti trovano pace è uno dei fili che Hedayat segue lungo tutto il testo de La civetta cieca e che gli guadagnerà molte censure.
Venne il dottore, con la sua barba lunga tre palmi, e mi prescrisse dell’oppio. Quale meraviglioso rimedio per i dolori della mia esistenza! Ogniqualvolta fumavo dell’oppio, le mie idee acquistavano grandezza, acume, divenivano magiche e sublimi, e io mi muovevo in una sfera di là dai confini del mondo comune. I miei pensieri erano liberi dal peso della realtà materiale e spaziavano verso un empireo di tranquillità e di silenzio. Mi pareva di essere portato sulle ali di un pipistrello d’oro e di vagare attraverso un mondo vuoto e raggiante, senza alcun ostacolo al mio procedere. Provavo una sensazione tanto profonda e deliziosa che la gioia era più forte dello stesso terrore della morte.
La storia è la descrizione annebbiata da fumo, incubi e paure di un tormento esistenziale inestirpabile, inconsolabile, senza altra possibile destinazione che non sia la morte. Hedayat sembra scrivere con pochi filtri, anche con poca costruzione del testo, usa un tono palpitante, a tratti sembra perdersi rincorrendo immagini sfuggenti, spesso appare affranto per l’impossibilità di trovare pace, per i conflitti che il suo solo vivere provoca con la tradizione, sconvolto dalla solitudine che lo assale. È un testo che traspira esistenzialismo francese e che fa di Hedayat un martire dell’epoca, ma invece di rivolgersi all’Europa, si volge a Oriente e si getta nell’Iran.
Ho sempre ritenuto che, nella vita, la miglior linea di condotta per un uomo sia il silenzio; che nulla si possa fare di meglio che ritirarsi in solitudine, come l’airone che stende le ali sulla riva del mare.
La civetta cieca è una storia del silenzio che pervade un uomo in cerca di un equilibrio tra due mondi, equilibrio che sa di non poter trovare e che per questo recita le ultime parole prima di cadere, prima di essere sopraffatto da se stesso e dall’inerzia del vivere.
L’unica cosa che m’induce a scrivere è il bisogno, il bisogno soverchiante e ora più pungente che mai, di comunicare i miei pensieri al mio essere immaginario, alla mia ombra, quell’ombra sinistra che in questo momento si stende sulla parete nella luce della lampada a olio, nell’atto di studiare attentamente e divorare ogni parola che scrivo.
Autodistruttivo, disperato, annebbiato, invaso da languore malinconico, ossessionato dai grandi scrittori francesi del Novecento, così si spegne scrivendo Sadeq Hedayat, sprigionando un fascino impuro ma intenso.
Tre gocce di sangue, la seconda parte del volume, è la raccolta di alcuni racconti, in parte influenzati dal periodo vissuto in India – Sampangé è bellissimo – altri di ambientazione persiana, Teheran o le campagne. Perfino ironici e fantastici, come La mummia di Shiraz. Belli, molto ben costruiti.