«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
IL GALLO D’ORO
Juan Rulfo
Traduzione di Paolo Collo
Einaudi 2015
Ci sono scrittori che riconosceresti leggendone anche solo una pagina. Li riconosci per lo stupore che ogni volta provi davanti al loro talento. Una pagina, ne basta anche solo una e subito risuona la musica inconfondibile di quello scrittore, il tocco sulle parole che solo quello possiede, le immagini che solo lui vede. Questi sono gli scrittori che segnano una sensibilità, accordano la capacità di ascolto e allenano l’immaginazione. Questi sono i tuoi maestri e i tuoi compagni di viaggio.
Juan Rulfo per me è uno di questi scrittori favolosi. Non solo per me. La storia riporta di Garcia Marquez in estasi per Rulfo e come lui e me, molte altre persone ne sono rimaste ipnotizzate. Non è sorprendente che sia stato uno scrittore anomalo anche tra i pirotecnici sudamericani. Pochissimo è stato pubblicato, non si sa se perché effettivamente poco ha scritto o perché molto ha distrutto. Ha sempre prediletto la brevità delle storie, la laconicità di un Messico musicale e selvatico, i personaggi solitari come i paesi che attraversano. Eppure proprio dall’aridità del paesaggio e delle anime, Rulfo ha estratto storie favolose, minuscole ed epiche. Non so come ci sia riuscito, è un mistero, è inspiegabile. Si può solo farsi ipnotizzare dalla sua melodia lenta.
Con Il gallo d’oro termina l’opera di Rulfo, in precedenza composta da Pedro Páramo, il suo unico romanzo, e La pianura in fiamme, una raccolta di racconti, entrambi usciti negli anni ’50. Entrambi meravigliosi. Il gallo d’oro esce nel 1980 e a quanto pare la sua genesi e vicenda è avvolta nel mistero. Ne parla Ernesto Franco nella bella introduzione al testo quasi suggerendo che anche l’alone di magia che accompagna la genesi di quest’ultimo e insperato racconto sia opera dello stesso Rulfo. Perché i venticinque anni di silenzio? Perché le voci che si trattasse di un copione per il cinema, forse rifiutato, forse riscritto, forse già scritto alla fine degli anni ’50 e rimasto nella mani di Rulfo fino al 1980, forse addirittura un testo sopravvissuto alla sistematica distruzione delle stesso Rulfo e passato all’editore da un parente, senza il consenso dell’autore? E poi, perché il silenzio di Rulfo, che non intervenne mai a dissipare voci, dubbi e fantasticazioni? In fondo tutto questo non è altro che la testimonianza del mito che ha accompagnato Rulfo per tanti anni dopo la pubblicazione delle prime due opere. Forse Salinger ha avuto una simile traiettoria e un livello di attesa così perdurante per una possibile nuova opera.
Ma mi sto lasciando andare a uno stile da recensore, cosa che detesto moltissimo.
Basta così. Cercare di appropriarsi di un’ombra è sciocco e ridicolo.
Non devo fare io le presentazioni. Non sono maestro di cerimoniale.
Posso soltanto parlare della musica e delle immagini, e neppure molto. Brevità e laconicità sono d’obbligo.
Il gallo d’oro è una ballata. Non un racconto lungo, non un romanzo breve, non un testo per il cinema, ma una ballata. È la ballata di Dionisio Pinzón e di Bernarda Cutiño, la ballata del gallero e della Caponera, la ballata della perseveranza e della vanità, della polvere e del cielo, dello strisciare e del volare, ma è anche la ballata dei galli che combattono e per questo muoiono e degli uomini che muoiono anche senza combattere, muoiono e basta, sparati o addormentati non cambia, muoiono quando non si distinguono più dalla polvere e dalle ombre.
Il gallo d’oro è testo musicato o musica in forma di testo, si potrebbe leggere ballando con stivali che strisciano in terra e sollevano sbuffi di polvere, si potrebbe leggere cantando o bevendo mezcal, Il gallo d’oro lo si potrebbe danzare roteando insieme a Dionisio e Bernarda, sbattendo forte le scarpe quando i galli si scontrano oppure oscillando come giunchi quando la bara rivestita di velluto viola e con le modanature d’argento si allontana al tramonto tra i rumori della grande festa, o ancora si potrebbe leggere facendo l’amore o camminando da soli lungo una strada senza fine.
Comunque lo si legga, Il gallo d’oro è la conclusione. Non importa quando è stato scritto e come sia giunto all’editore. È in ogni caso la conclusione di una parabola breve e luminosissima e io penso che gli dei della scrittura fossero tutti in piedi ad applaudire e a battere i tacchi quando Juan Rulfo ha sorpreso per l’ultima volta uscendo di scena ballando.
Lui la fissava, ma con umiltà, mentre lei si accarezzava le braccia con le mani coperte di braccialetti. Così come la vedeva, Dionisio sentiva che lei era troppo bella per lui, che era una di quelle cose troppo distanti per poterle amare. Per cui il suo sguardo era passato dalla pura osservazione al puro desiderio, come se fosse l’unica cosa alla sua portata: poterla guardare e godersela con gli occhi.