«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
VITE MINUSCOLE
Pierre Michon
Traduzione di Leopoldo Carra
Adelphi 2016
È in corso nell’Italia dei libri una salutare riscoperta di autori francesi contemporanei. Amati e odiati francesi, ma di certo diversi dal canone americano grossolano che imperversa.
Questo Vite minuscole di Pierre Michon, scritto nel 1984 e mai arrivato in Italia è un libro notevole. Un libro notevole. Le vies minuscules del titolo sono senz’altro vite di persone modeste viste attraverso la lente di un narratore, minuscole come possono essere grani di polvere nello spazio, per dire. Io però credo che la dimensione minuscola a cui fa realmente riferimento Michon non sia tanto quella delle vite rappresentate, ma della propria scrittura che le rappresenta.
Minuscola è la punta con la quale cesella aggettivi, incisi enfatici e descrizioni che si srotolano come geroglifici microscopici. Minuscola è la scala a cui scende nell’osservare realtà letterarie, che per definizione realtà non sono, ma proprio per questo descritte fin nelle minuzie. Minuscole sono anche vite che si ricapitolano in una narrazione, sono minuscole le vite dei narratori, minuscole come lo spazio tra le parole, quello spazio nel quale la lettura di Michon rischia spesso di perdersi.
Insomma, bisognava proprio che facessi l’angelo, un giorno, per essere amato come lo sono i morti. Ma se tardavo troppo chi mi avrebbe amato? Guardavo il fuoco piangendo, chiamavo mia madre, le facevo giurare che i nonni non sarebbero morti. Vecchi cadaveri, oggi sono tranquillamente distesi accanto all’angelo nella sua piccola cassa, un po’ sotto Chatelus, non hanno più occhi per vedere che mi spuntano le ali; pochissimi fiori dalla mia mano li acquietano, le stagioni che disfano le loro vecchie ossa fiaccano la mia volontà, scrivo componimenti da scuola elementare e so che una sera d’inverno, in una stanza il cui ricordo stinge, tra le pagine sottili dell’«Almanach Vermot» che anche loro leggevano, mi sono teso una trappola la cui morsa si sta richiudendo.
Sono l’alta densità del fluido e l’estetica talvolta narcisa da pittore, due tratti salienti della scrittura di Michon. La narrazione intesa come fluido omogeneo di parole, frasi e periodi, in Michon si addensa fino a diventare una creta plasmata in modo da frenare il procedere. La lettura non può correre sui periodi, non può scivolare di riga in riga, di immagine in immagine, di sonorità in sonorità. Michon non è musicale in senso melodico, lo è in senso atomico, musica la singola parola, al più la coppia di parole o l’inciso, non l’intero periodo e tanto meno la pagina. Per questo costringe a calarsi nella dimensione minuscola, tra gli spazi; costringe a osservare le parole, non soltanto scorrerle scivolandoci sopra. Vi dovete fermare a ogni spazio, fissare la parola, quelle vicine, provare a leggere il periodo, ritornare indietro, spezzarlo in parti, osservarle, rileggerle, ricomporle; solo allora procedere. Vi costringe nella sua gabbia di termini cesellati, di ricami minuscoli, vi costringe alla lentezza, come quella delle vite narrate che pur nella estrema modestia procedono con inesorabile flemma verso la morte. Per questo la scrittura di Michon è anche tanto pittorica; pennellata dopo pennellata costruisce un insieme che visto da lontano non è che una tavola monocroma indistinta. Bisogna avvicinarsi fin quasi a schiacciare il viso contro le increspature di vernice, odorando i chimici effluvi, osservando con visione sfocata per l’eccessiva vicinanza gli intarsi nascosti nelle pennellate.
Vite minuscole è arcaico, inospitale, ostico, faticoso. Un grande libro però, una riflessione profonda e tormentata sulla scrittura, l’estetica e lo sguardo di uno straordinario scrittore. Bravissimo anche il traduttore, Leopoldo Carra.
Era di un pallore cereo, un pallore fulvo mi verrebbe da dire, da puritano fiammingo che si accinge a sciabolare l’iconolatra; non aprì la bocca, solo i pugni frementi, solo gli occhi invasati che la passione accecava vivevano. Il piccolo sogghignò, ma il suo disprezzo era snervato e lamentoso, e lui stesso era sfigurato, come offeso: «Quel libro era per me» gridò mentre scappava via.
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troppo orgoglioso…