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«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

Tempi felici – Ferenc Karinthy

tempi-felici

TEMPI FELICI
Ferenc Karinthy
Traduzione di Laura Sgarioto
Adelphi 2016

Questo è il Karinthy autore di Epepe e figlio dell’altro Karinthy autore di Viaggio intorno al mio cranio, entrambi libri meravigliosi, ma soprattutto è figlio della grande tradizione letteraria ungherese che oggi, forse, sta ritornando a essere un po’ meno ignorata con László Krasznahorkai. Gli scrittori ungheresi sono un po’ come quelli argentini, mai sottovalutarli perché, senza preavviso, sono capaci di colpi di coda o epifanie letterarie strepitose, da lasciarti con la faccia bloccata in un sorriso stupito e lo sguardo rivolto al nulla di un immaginario campo lungo. Gli ungheresi – e con loro i cechi, i romeni, fino ai polacchi, tutta l’area tra i Balcani e il Baltico, radici germaniche senza essere tedeschi, fiato russoslavo sul collo e antiche paure delle steppe turcomanne – sono anche maestri nel dipingere di grottesco la cupezza che riempie la quotidianità dei luoghi e delle vite, spalmare le pagine di malinconia leggera e ironizzare su grandi tragedie come una guerra. Per quest’ultima abilità, l’arte di mettere in ridicolo la guerra e i guerrafondai, Il buon soldato Sc’vèik è insuperato, ma anche questo Tempi felici si distingue.

La trama di questo breve romanzo si racconta in poche battute: il protagonista Jószi Beregi, giovane e di bell’aspetto, è ebreo e si trova a Budapest nei giorni dell’assedio da parte dell’Armata Rossa, epilogo dell’occupazione nazista. Occupanti tedeschi e loro alleati ungheresi delle Croci frecciate continuano nei rastrellamenti di ebrei e di oppositori, non più deportati per via dell’isolamento, ma giustiziati in massa lungo le rive del Danubio. La popolazione rimasta in città vive nei rifugi di fortuna, allo stremo, tra fame e tiri di artiglieria incessanti. Lo scenario sarebbe dei più cupi, tragico, disumano, descritto in molte cronache di quei giorni. Sarebbe. Non è. L’arte di Ferenc Karinthy lo trasforma in una sarabanda di avventure sentimentali di Jószi Beregi, fuggiasco e braccato, infine catturato e prossimo a essere giustiziato, il quale, a dispetto del lettore già pronto ad affrontare le brume della tragedia, è invece un personaggio divertente, leggero, scanzonato, il cui unico vero pensiero è quello di godersi la vita, sfamarsi quanto basta, trovare un ricovero asciutto e, soprattutto, sedurre quante più donne gli riesce, belle e brutte, giovani e meno giovani, gentili o scorbutiche, comprensive o, culmine del divertimento, anche feroci come squadriste filonaziste. Lui le seduce tutte e in tutte trova una grazia femminile nascosta della quale godere, ricavare piacere e scoprire umanità.

Ma attenzione! Non cadete in un equivoco da conformisti. Tempi felici non è un “inno alla vita”, uno “sberleffo alla morte”, una “ode alla libertà” o altre frasi fatte ingessate e polverose che certi commentatori un po’ fissati con una certa retorica spargono in abbondanza a ogni occasione. Tempi felici è un esercizio di ironia letteraria, è una storia il cui senso è l’ironia, ironia non finalizzata o inscatolata, ma libertà di pensiero e di espressione che è tale proprio perché si permette di ironizzare su qualunque cosa, anche sulle tragedie, con tatto, con eleganza, senza offendere o mancare di rispetto a nessuno, ci mancherebbe signore e signori, siamo tutti ben educati… ma anche senza farsi frenare da costumanze e incrostazioni. È come la libertà di satira che in molti difendono quando si tratta di darsi delle arie coi bei discorsi, per poi attaccare con retorica benpensante quando la satira schizza le scarpe dei costumati. Questo è Tempi felici, un titolo da leggere in modo letterale, prima di farsi tentare dall’impulso di rivoltarlo e ricamarci sopra futili ghirigori.

È un piccolo libro da farsi venire il sorriso, sorridere del sorriso, divertirsi per il divertimento, fare Ah! … Ma guarda un po’!… e poi concludere, se proprio siete di quelli fissati con le conclusioni, che la libertà è tale proprio perché libera dalle nostre fissazioni.

Note:
– Francesco Cataluccio, gran signore, scrive un bel commento per Il Post.

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Questa voce è stata pubblicata il 17 dicembre 2016 da in Adelphi, Autori, Editori, Karinthy, Ferenc con tag , , , , .

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