«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
L’ILLUSIONE MONARCA
Marcelo Cohen
Traduzione di Francesca Lazzarato
gran via 2016
Arriva Natale e porta in libreria la sorpresa di un libro argentino di autore a me sconosciuto, pubblicato da una casa editrice a me sconosciuta, il che è senz’altro molto argentino. In prima battuta mi verrebbe da dire che L’illusione monarca è un libro esemplarmente argentino, la cui argentinità è tale e talmente evidente che chiunque lo legga non può non accorgersene. Ripensandoci a mente fredda non cambio opinione, anzi dico che non è solo esemplarmente argentino, ma è addirittura sfacciatamente argentino, perché penso che Marcelo Cohen non si sia limitato a creare una storia che si può piegare e ripiegare molte volte e ogni volta farne uscire una metafora dell’essenza argentina, o della coscienza argentina che dir si voglia, in realtà quello a cui penso è più una rappresentazione simbolica che una storia dalle molte metafore, cioè penso che Marcelo Cohen abbia voluto mettere in scena una pantomima volutamente ritmata e codificata in modo che riuscisse facile sfogliarne le molte metafore possibili, perché è chiaro come ad ogni pagina ricorra invariabilmente una domanda inevitabile: Cosa realmente significa questa storia? – domanda questa che fin dalla prima pagina comincia a picchiettare per via di una scelta di tinte bizzarre e un tono svogliato che Francesca Lazzarato, la traduttrice, restituisce con grande cura in un italiano che sembra a tratti perfino ingrigito, ma che in realtà serve allo scopo che Marcelo Cohen, con tutta evidenza, si prefissa, ovvero di insinuarvi una domanda senza farvi accorgere che è proprio lui che ve la insinua, tipico stratagemma letterario argentino questo, e su questa domanda insistente fa leva per mettervi un po’ scomodi, come con un odore sgradevole, o come a volte succede con un particolare rivelatore di un grande imbroglio. Nel caso dei particolari che rivelano grandi imbrogli, i maestri nel ritrarli sono i fotografi; con le parole è molto più difficile e dispendioso, mentre a loro basta uno scatto. Oggi ho visto la mostra di Robert Frank, per questo parlo di questa faccenda del dettaglio rivelatore. Tra tutte le foto, strepitose, una mi ha colpito in maniera particolare e mi ha fatto pensare a Marcelo Cohen. Però “pensare” non è forse il termine adatto visto che a quel dettaglio che rivelava il grande imbroglio e a Marcelo Cohen ho pensato con insistenza per molte ore consecutive dopo che ho visto quella foto e oltretutto ora l’ho cercata e non l’ho trovata tra le pur molte foto di Robert Frank che si trovano in rete e questo perché è in effetti una delle meno originali di tutta la serie e perfino una delle poche banali della serie di scatti, per cui per mostrarla dovrei mettermi a rovistare in qualche scatolone per ritrovare il libro di Robert Frank che comprai parecchi anni fa e fotografare la foto, il tutto per dimostrare la banalità della foto e quel piccolo piccolissimo dettaglio del tutto insignificante che però per me ha assunto un significato enorme tale da farmi pensare insistentemente al significato di quel dettaglio che sicuramente – questo sicuramente è del tutto certo – a Robert Frank non è affatto sfuggito e anzi è proprio quel dettaglio insignificante ad averlo convinto a scegliere proprio quella foto per la serie finale tra le migliaia che scattò. In un modo direi non proprio uguale ma simile dopo aver finito di leggere L’illusione monarca ho continuato a pensarci insistentemente per giorni perché ero e sono certo che Marcelo Cohen abbia costruito un grande inganno nascosto sotto una storia, rivelato da qualche piccolo dettaglio volutamente lasciato in bella vista, ma quasi sempre trascurato, tanto che, come la foto di Robert Frank, si potrebbe facilmente dire che si tratta di una foto banale e di un libro banale o che le metafore espresse dalla foto e dalla storia sono banali, quando invece, ecco qui il grande inganno, in realtà si tratta di una foto strepitosamente originale ed evocativa e di un libro straordinariamente originale ed evocativo.
Sono circa centocinquanta metri di spiaggia, una spiaggia ampia, di sabbia fine e dorata, che potrebbe essere fantastica se non fosse interrotta. A destra e a sinistra, a una distanza imprecisata ma notevole, emergono dal mare due muri di calcestruzzo grigio chiaro, non ancora attaccati dal muschio, che a giudicarli dalla spiaggia si direbbero alti sette metri. Per lo sguardo, la certezza che racchiudano la spiaggia non è immediata, perché i muri proiettano giusto qualche metro d’ombra, e non per tutto il giorno, ma sulla cima, tra pali di ferro piantati nella malta, corrono numerose linee di filo spinato. Stregato dal mare, dopato dall’aria frizzante, lo sguardo dimentica i muri e fa la spola tra l’orizzonte e la sabbia.
Quello che Marcelo Cohen descrive è una prigione. Letteralmente una prigione; le celle sono disposte parallelamente al bagnasciuga, dietro le torrette e i camminamenti delle guardie. Le porte delle celle rivolte verso il mare sono aperte e i detenuti scontano la pena in quel tratto di spiaggia delimitato dai due muri che corrono paralleli e si inoltrano per duecento metri nel mare. A chi prova di scavalcare i muri le guardie sparano con la mitraglia, per il resto non ci sono altre restrizioni. Ci sono i prigionieri, le celle, la spiaggia e davanti il mare, nient’altro. La via di fuga è aperta e non controllata, non occorre pensare a nessuna alternativa o stratagemma per riconquistare la libertà, solo inoltrarsi nel mare, superare i muri e allontanarsi a nuoto. Non ci sono inganni o trappole o minacce nascoste. Ci sono le celle, la spiaggia e il mare con le sue insidie e i suoi pericoli, alcuni non tornano, per altri la corrente riporta a riva il corpo. Questo è tutta la storia de L’illusione monarca.
Che cosa significa questa storia?
È una metafora della storia dell’Argentina? Della condizione umana? Del destino degli argentini? Della cultura argentina? Della vita? È tutte queste metafore o nessuna di queste?
O forse è la storia della letteratura argentina o della letteratura in genere oppure del bisogno degli uomini di scrivere storie, di scrivere la propria storia, la lotta tra la paura di rivelare la propria inconsistenza, la vuotezza dell’involucro umano, e lo spasmo vitale e la presunzione di scrivere di sé?
Oppure ancora è la metafora della pochezza delle costrizioni che ci separano dalla libertà, ma anche della pochezza della libertà stessa, nient’altro che una eterna replica della stessa cella, della stessa spiaggia e dello stesso insignificante mare? Forse è proprio la metafora dell’insignificanza sovrana, come l’illusione monarca citata nel verso di una poesia?
Forse, come fa dire Marcelo Cohen alla voce narrante, appena il fuggiasco poggerà di nuovo i piedi sulla spiaggia uscendo dall’acqua si accorgerà che il carcere è una scenografia e che la testa devastata non sa che farsene dell’odio, si ritroverà a essere più reale della prigionia e poi racconterà una storia.
Non che ne avessi bisogno, ma tutto questo mi ricorda una volta di più per quale motivo io ami tanto certa letteratura argentina e perché certe volte non mi riesca di non pensare a un dettaglio messo apposta per svelare un grande inganno.
Robert Frank (foto da The Americans)
vedo che non demorde neanche nei giorni di festa
mi fido così ciecamente dei suoi giudizi, non so neanch’io spiegarle perchè, che, nel dubbio, leggo solo se già recensito da questo sito.
secondo me lei è un editor professionista
magari adelphi?
No no, niente editor, niente settore editoriale e niente conoscenze adelphiane. Grazie, lei è molto gentile, ma non si fidi troppo, tanto maggiore la fiducia tanto maggiore la delusione.