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«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

The attention merchants – Tim Wu

attentionmerchants

THE ATTENTION MERCHANTS – The epic scramble to get inside our heads
Tim Wu
Knopf 2016

Mi fa piacere segnalare questo interessantissimo libro, ma allo stesso tempo mi spiace informarvi che è probabile che in italiano non lo vedrete mai visto che neppure il precedente dello stesso autore, The Master Switch, uscito nel 2012 con ottimi riscontri da critica e lettori – e che io già mi pregusto per questo inizio d’anno – non ha un’edizione italiana.

Diciamolo senza tanti giri di parole: viste le montagne di autentica spazzatura editoriale importate dagli USA che i nostri solerti editori si premurano di tradurre e diffondere nel circuito italiano ammorbandolo (con l’aiuto di solerti critici e blogger e altri diffusori di spazzatura) a scapito dello svogliato, intossicato e imbrogliato lettore medio italiano, che non ci sia nessuno che traduce testi divulgativi di ottima qualità, altrove tradotti e apprezzati, riguardanti temi importanti per la contemporaneità e per scrollarsi almeno un po’ la deprimente ottusa provincialità italica che ci accompagna in quanto nazione e popolo, è un fatto scandalosamente imbarazzante, una rivendicazione di ignoranza, una resa incondizionata al pettegolezzo e al giornalismo cafone.

A onor del merito, come eccezione nella selva di insulse classifiche di fine d’anno, in tutto e per tutto paragonabili a volantini pubblicitari del supermercato, il settimanale Pagina99, nel numero 46 andato in edicola il 10 dicembre, ha citato questo The attention merchants tra i migliori libri di saggistica del 2016. Una voce isolata persa nella caciara di spot pubblicitari travestiti da consigli e giurie di qualità.
Per chi ascolta le voci isolate, invece, questa volta riceve la segnalazione di un libro che affronta, dettaglia e spiega in modo approfondito, ma facilmente comprensibile anche da chi non ha esperienza dell’argomento, uno dei punti di snodo della nostra società moderna occidentale per come si è andata formando nel corso del Novecento e come la viviamo noi oggi, digitalizzata e iperconnessa: l’industria della pubblicità.

La pubblicità.

È ad essa che Wu fa riferimento nel titolo, sono coloro che hanno creato e guidano il settore pubblicitario i mercanti dell’attenzione, il grande business della cattura dell’attenzione del pubblico, il momento nel quale lo si trasforma in consumatore, quando lo si monetizza, si apre il flusso di cassa degli acquisti, si muove ricchezza, il motore di tutta la nostra società, la grande forza plasmatrice di uomini, famiglie, desideri, sogni, vita. C’è una mistica neppure troppo nascosta nel meccanismo pubblicitario, come c’è ogni volta che si liberano forze in grado di controllare persone e le loro vite. A quella forza abbiamo dato via via nomi diversi, religione, psicologia, dottrina, ideologia, ciarlataneria, sciamanesimo e anche pubblicità. Tutte interpretazioni differenti di una stessa forza.

Eppure, e di questo mi stupisco in parte, quando si considera la pubblicità si tende a leggerla in molti modi diversi – fenomeno di costume, lavoro creativo, accessorio del mondo dei media e dello show business, glamour e glitter, o anche inevitabile seccatura quotidiana e fonte inesauribile di imbrogli – ma raramente le si attribuisce il ruolo di forza che ha cambiato e continua a cambiare la società. Per qualche ragione, che forse ha a che fare con il disprezzo intellettuale per la sua veste biecamente commerciale, la pubblicità, pur essendo per sua natura costantemente visibile e insistentemente al centro della ribalta, è quasi sempre sfuggita a una presa d’atto della sua enorme valenza sociale, strategica, culturale, politica e, aggiungerei, generatrice di modelli umani. Tutti la vediamo e la assorbiamo, ma in poche persone, anche tra gli stessi pubblicitari, ne comprendono la reale natura.

È facile fare esempi perfino paradossali. Tu donna quaranta-cinquantenne che fumi o forse fumavi in gioventù, ricordi il senso di liberazione dei costumi che quella sigaretta fumata in tutta libertà ti dava? Ti ricordi di come ti sembrasse un modo per rivendicare l’uguaglianza e i diritti della metà repressa? Se non te lo ricordi tu forse tua madre lo rammenta. In ogno caso, era vera quella sensazione di liberazione. È innegabile che lo fosse. È però altrettanto vero che alcuni decenni prima di quando tu o tua madre fumavate con soddisfazione, quella leva culturale veniva discussa e pianificata a tavolino negli uffici di un’agenzia pubblicitaria newyorkese ingaggiata dall’industria del tabacco che aveva capito come raddoppiare in un colpo solo il mercato liberando le donne dallo stigma del fumare in pubblico. Oppure tu, quarantenne di buone letture e buone maniere che adori il sushi, o magari lo hai adorato in un recente passato, che hai sviluppato una raffinata cultura alimentare, ti piace parlarne e ti piace sperimentare cibi, bevande, sapori, profumi, fa parte della tua vita, ti dà piacere, riempie i vuoti, perfino ti definisce, tanto che trovi strano, quasi sospetto, se qualcuno non lo comprende. Di nuovo, è tutto vero, questo è uno degli aspetti più scivolosi, non c’è un inganno da smascherare, eppure, come prima, decenni fa, probabilmente attorno a un tavolo di una stanza fumosa di New York, alcuni uomini mediamente ricchi, tendenzialmente alcolizzati, adulteri, bianchi, razzisti e repubblicani stavano discutendo proprio di te, di come realizzare questo genere di società e far esplodere i fatturati del settore alimentare, del commercio e della ristorazione. La mania del sushi è nata negli anni Sessanta, diciamo almeno cinquanta anni prima di quando l’onda ha raggiunto anche te.

Che dire della televisione? Guardi la televisione, qualche programma? Reality show, talk show, giochi a premi, serie tv, film? Perfino i notiziari o lo sport, qualcosa di questo lo vedi? È tutto nato e cresciuto fino ad assumere la forma che conosciamo dietro la spinta pubblicitaria, come una sorta di processo evoluzionistico di adattamento a un contesto mutevole, il pubblico, questa massa gelatinosa di voi e di noi che si esprime reagendo di pancia, istintiva, pachiderma gorgogliante in costante traslazione lungo una china inclinata che la pubblicità cerca di orientare usando delle leve nascoste. Tutta la storia della televisione e prima della radio è una storia di leve nascoste.

Arriviamo a oggi, a internet, il web, i social, gli smartphone, l’uomo digitale, il cyberspazio. Quanti di voi sanno che Google e Facebook sono due enormi macchine pubblicitarie e nei ritagli di tempo fanno anche altro? Tutti lo sapevate? Perfetto, di nuovo, è vero, ormai tutti lo sappiamo, ma quasi nessuno se ne rende davvero conto, nessuno se lo sente addosso, lo odora, lo percepisce epidermicamente, perché noi scivoliamo lungo il piano inclinato, siamo gelatina, siamo inconsistenza informe difficile da stabilizzare ma incapace di reagire. Noi scivoliamo, in un modo o nell’altro, inconsapevoli della nostra inconsapevolezza.
Ancora, chi si è reso conto che il web, come ogni media da un secolo a questa parte, sta in piedi solo grazie alla pubblicità, che però non sta funzionando come speravano e in più ci si sono messi gli adblocker ormai adottati da moltissimi e che quindi come risultato nessuno ora sa che pesci pigliare? Siamo nel caos con due enormi buchi neri che inghiottono ogni risorsa, di questo se ne è parlato, esistono ottimi articoli e analisi, ma chi quando naviga sul web o mette i like o twitta o legge le notizie se ne rende conto in modo consapevole?
E tu, giovane o non-più-tanto giovane nerd in jeans e t-shirt, no logo e tecnofilo, tu che al solo sentir parlare di pubblicità fai un ghigno schifato e pensi che quella merda non ti tocca, ecco tu, proprio tu, hai capito di essere un prodotto dell’industria pubblicitaria? E per di più uno dei prodotti più semplici da confezionare. Forse qualche volta il sospetto ti è venuto, ma puoi dire di averlo compreso? Sei un esemplare tipico di un cluster di mercato, uno delle decine, uno tra i tanti che vengono osservati, circoscritti, sfamati, rivestiti e manipolati.
E tu là, attivista idealista per i diritti civili digitali, tu che vorresti un mondo migliore o almeno sentirti un po’ meno sporco, un po’ meno colpevole, tu che hai trovato per cosa combattere, contro la sorveglianza digitale, contro l’invasività dei governi spioni, contro l’NSA, la CIA e l’FBI, tu che da figlio di società ricca, istruita, agiata e abituata a ogni comfort ora vorresti restituire parte di quei privilegi contribuendo a un mondo senza censura, senza spie, senza sorveglianza, un mondo crittografico e candidamente tecnologico, ecco tu, proprio tu, hai capito di essere pure tu un prodotto della pubblicità, forse addirittura il più facile di tutti, quasi quanto lo fu inventare la figura della casalinga negli anni ’50 (per questo il riferimento insuperato rimane quel libro grandioso che è ancora I persuasori occulti di Vance Packard)? E lo sei perché non chiedevi altro, eri proprio tu a desiderare di essere plasmato per poterti concentrare sul tuo obiettivo redentore. Tu, attivista digitale, con la tua capacità di fare rumore e sollevare polvere, sei stato la leva che è servita per spostare il piano inclinato e far scorrere il globo gelatinoso verso il male minore, verso lo stato, il governo, le agenzie pubbliche, gli sbirri e i servizi segreti, tutta gente che rimane imperterrita di fronte ai tuoi insulti e a quelli di attivisti sudati, agli ACAB graffitati su muri e timeline e ai discorsi supponenti dei novelli agit-prop che si succedono nelle convention tematiche quando ribadiscono l’ovvio e smerciano ideologia elementare, niente di più innocuo e conformista, come ben noto da molto tempo a questa parte.
D’altra parte, i grandi divoratori di dati personali, i mercanti dell’attenzione, l’industria della pubblicità digitale e le corporation, quelli che nella ricerca spasmodica di un nuovo strumento pubblicitario che sia redditizio per l’epoca digitale si sono spinti a osservare ognuno di noi in ogni istante della nostra esistenza, ci seguono costantemente, ci osservano, sanno tutto ciò che facciamo, che diciamo, che scriviamo, per cosa soffriamo e quando godiamo, quelli che ormai sono arrivati a metterci sul corpo i loro occhi e le loro orecchie e si preparano per entrare dentro il nostro corpo e mente, sono la più abnorme e inimmaginabile macchina spionistica e manipolatoria che sia stata concepita – e tutto nel tentativo disperato di far funzionare la pubblicità -, questi, i mercanti dell’attenzione si sono ancora una volta messi al riparo dalla furia popolare, hanno manovrato per non farsi investire e per continuare indisturbati anche mentre montavano gli scandali.

Questa è la pubblicità, è un’industria con radici profonde e competenze superlative, talenti eccezionali l’hanno fatta crescere, muove montagne di soldi, crea imperi, svuota mari e cambia il corso della storia. Ma non lo fa apposta, non è la Morte Nera, non c’è alcun grande vecchio o eminenza grigia o Hitler reincarnato. Lo fa perchè è il motore economico di tutta la comunicazione aziendale, l’informazione e l’intrattenimento del mondo globale. Da un certo punto di vista, la pubblicità non è solo l’anima del commercio, ma è anche la coscienza dell’uomo economico, quello che siamo diventati, quello che ci permette di attribuirci un valore. Che la propria coscienza si possa rivelare sporca è un fatto del quale in pochi si dovrebbero stupire.

The attention merchants parla di questo e anche di più; ripercorre la storia dell’industria della pubblicità dall’inizio del Novecento fino a oggi, spesso documentando svolte sorprendenti e non note. Lo fa con lo stile americano della popular science, molto aneddotico, molto teatrale. È però anche estremamente documentato e analitico, non cede a facili giudizi o a interpretazioni superficiali, ma si preoccupa di mettere in luce le dinamiche complesse che legano il pubblico dei media e l’industria pubblicitaria che cerca di catturarne l’attenzione, una relazione simbiotica di reciproco nutrimento, di attrazioni e respingimenti, e di grande capacità di adattamento.

Comprendere e studiare la storia e le dinamiche dell’industria pubblicitaria è una delle chiavi per comprendere la storia moderna e la contemporaneità, sfortunatamente è anche una delle meno praticate.

Note:
– Il New York Times lo recensisce.
The Atlantic intervista l’autore.
– Il Financial Times lo recensisce.
– Anche il Guardian.

2 commenti su “The attention merchants – Tim Wu

  1. Giovanni
    29 luglio 2017

    Peccato non poterlo leggere. Conosco un po’ di inglese ma non sono così competente… Spero di poterlo recuperare in un futuro prossimo!

    • 2000battute
      29 luglio 2017

      Purtroppo solo pochi saggi e testi divulgativi vengono tradotti in italiano, e non necessariamente i migliori. È un problema atavico del mercato italiano quello di avere poco spazio per testi di divulgazione scientifica e tecnica.

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Questa voce è stata pubblicata il 31 dicembre 2016 da in Autori, Editori, Knopf, Wu, Tim con tag , , , , , .

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