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«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

L’uomo di Dubai – Joseph O’Neill

L’UOMO DI DUBAI
Joseph O’Neill
Traduzione di Tommaso Pincio
Codice Edizioni 2015

Commento di Cornelio Nepote

Facoltosissimi e facoltosissime,

ho trascorso il primo terzo di lettura di questo libro a sbuffare nuvole verdognole dicendo Ma che bruttezza di libro!, mentre guardavo quella meraviglia che è il Vesuvio, poi il secondo terzo a guardare con vera sfrontatezza le signorine sgambettanti mentre pensavo Ma che bellezza questo libro!, e infine l’ultimo terzo a domandarmi oziando e grattandomi se questo libro fosse bello o brutto.

Alla fine di questa attività cerebrale ma non solo, il risultato è che mi sono convinto che si tratti di un libro sia brutto sia bello, il che, attenzione che ora il discorso si fa complesso!, salendo al piano superiore, quello della metalettura, è senz’altro un giudizio positivo, perché a quel livello di cerebralità più sofisticata o più rarefatta – è uguale, ma chi se ne importa di queste differenze dialettiche care ai nostalgici degli anni di piombo – l’importante è il movimento relativo, l’oscillazione semantica, il relativismo accentuato, siliconato pure, e la metapercezione tutta concentrata sul movimento di bacino. Quindi, l’ambiguità tra le categorie assolute di bello e brutto, che so essere molto deprecate da certuni intellettuali sfaccendati, i quali però si contraddicono non appena mettono piede in strada, se mai lo mettono, cosa non scontata vedendo certe facce e certi incarnati gessosi, categorie appartenenti al livello interpretativo della lettura diretta, vogliamo ricordare, il livello, diciamo cosí, carnale o anche peninsulare, al quale (livello, s’intende) l’ambiguità che spaventa o pone in uno stato di disagio il re-censore patentato e l’addetta alle pubbliche relazioni troppo nevrotica, diventa invece sorgente tiepida e zampillante di affascinanti ragionamenti e metaragionamenti per tutti o parte di coloro ostili al mondo tardo-industriale incentrato sul conformismo delle passioni e sull’ossessione per l’atto del disambiguare.

In breve, l’ambiguita è ricchezza.

Ora, però, visto che io e voi sappiamo molto bene che di metaragionamento si può pure morire e se anche non si finisce in muffa, a eccedere con certi vizi come il metaragionamento o l’incensare edonistico delle proprie facoltà cognitive non si fa di certo una bella vita e neppure un buon odore, vi suggerirei di non indugiare nei piaceri di questo esercizio intellettuale che io mi concedo solo saltuariamente dopo averlo affinato nel corso di una lunga vita, ma voi forse no.

Soffermiamoci quindi ancora per qualche istante sul libro, il futile pretesto per questa digressione, e consideriamo l’ambivalente natura di bello e brutto consustanziali. Iniziamo dal brutto, per diritto di precedenza araldica. Il brutto è tale per la bruttezza che trasmette e incarna. Detto di un libro, la bruttezza si incarna in una prosa sempliciotta e in un personaggio banalotto, si trasmette con una sensazione di noia alla quale potrebbe anche seguire la più acuta, e per certi versi, più nobile, sensazione di stare sprecando i pochi istanti che dalla nascita alla morte ci sono concessi di una vita inesorabilmente priva di eventi memorabili in un’attività deprecabile come la lettura di un brutto libro. Passiamo ora al bello. Il bello è tale per la bellezza che trasmette e incarna. Detto di un libro, la bellezza si incarna in una prosa che coinvolge e in un personaggio affascinante. La bellezza di un testo si trasmette producendo un flusso di energia intellettuale e sensoriale dalle pagine ai sensi, che si attivano, fremono, generano immagini da immagini, sensazioni da sensazioni, parole che generano parole che generano nuovo testo che va a sovrapporsi e mescolarsi con quello impresso dai caratteri di stampa.

In questo stato altalenante, voi capirete certo come il giudizio si sia facilmente trasformato in metagiudizio e io abbia ceduto languidamente al richiamo dell’astrazione intellettuale, momentaneamente mancando di altre attrazioni.

Altalenante è anche il personaggio del libro, un tizio che prima non avreste avuto nessuna voglia di incontrare e farci una chiacchierata, poi invece ne scoprite il talento narrativo quando chiude la rivista patinata della banalità del lusso borghese, e quindi cafone, dell’emigrato occidentale a Dubai, e apre il libro polveroso dell’autocoscienza di un uomo che sta sgretolandosi e con lui il mondo di cartapesta e mignotte che lo circonda. Quel libro polveroso che tutti conserviamo gelosamente, ma che apriamo il meno possibile.

Oppure, se come ho scritto io non vi sembra chiaro, come magistralmente scrive lui:

Questa era la parte facile: i preliminari. Non c’è rischio che io esageri le difficoltà incontrate nella stesura del corpo centrale, nel dichiarare con efficacia quanto volevo dire. Problemi concettuali, testuali e giuridici orribilmente comparabili, per caparbia ed enigmatica osticità, a quei super-topi resistenti al veleno che, stando ai racconti, minacciano di neutralizzare ogni aggressione della scienza moderna perché costoro, i super-topi, sono diventati più forti proprio grazie all’aggressività scientifica. Quello che voglio significare è che qualunque mio tentativo di eliminare dal testo vaghezze, errori e imprecisioni di senso aveva quale esito soltanto quello di rendere ancor più irrimediabili i problemi di senso. Era come se ad essere sbeffeggiato fosse lo sforzo in sé, l’idea di dare un senso; come se le parole che digitavo sulla pagina bianca del programma di scrittura, parole fatte di lettere nere, non fossero quei simboli che io pensavo; ovvero come se ogni parola, con la sua piccola denotazione luciferina, fosse di fatto consustanziale all’oscurità di quella mancanza di comunicazione che in teoria avrebbe dovuto neutralizzare; ovvero come se il significato di una parola non risiedesse nel suo simbolismo ma nella banale presenza sulla pagina, una presenza che, seppure scontata, rappresentava un segreto; ovvero come se una parola fosse esattamente e velatamente quello che appariva, una nerezza in forma di lettere, vale a dire una specie di dettaglio letterale di una super-realtà immobile, forse entropica e comunque annichilente e residuale, la super-realtà del nero e della nerezza; sicché ogni segno io producessi attraverso la pressione di un tasto della tastiera aveva conseguenze opposte alle mie intenzioni, segnatamente quelle di una diminuzione nella quantità di luce complessiva portata al mondo e di un aumento nella quantità di semioscurità complessiva.

Omaggiandovi sempre,

Cornelio Nepote, l’uomo delle Due Sicilie

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Questa voce è stata pubblicata il 28 gennaio 2017 da in Autori, Codice, Editori, O'Neill, Joseph con tag , , , , , .

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