«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
IL RUMORE DEL TEMPO
Julian Barnes
Traduzione di Susanna Basso
Einaudi 2016
Nutro molta stima per Julian Barnes fin dai tempi de Il pappagallo di Flaubert, all’epoca fuori catalogo e lungamente cercato tra le bancarelle dell’usato. Non una vera passione travolgente, come posso provare per geni dell’iperspazio letterario come Onetti o Bernhard o Rulfo o Beckett, tutta gente molto morta per altro, il che è una caratteristica letterariamente importantissima, troppo spesso considerata come un semplice accidente della vita. Julian Barnes lo ammiro per il talento che ha e per come lo usa, tra alti e bassi, ho letto anche cose che non mi sono piaciute di Barnes, però in quel caso non c’era un abuso di talento ma solo un libro zoppicante da lasciar scivolare via. Ma è l’intelligenza la qualità che più riconosco a Barnes e il maggior piacere che la sua lettura offre; quell’intelligenza che gli permette di incarnare nature diverse sempre controllando la scrittura in modo magistrale, con quella certa ironia di fondo di chi sa di poter sorprendere, come un abile regista.
Ne Il rumore del tempo, Barnes sceglie il registro della prosa alta, elegante, cesellata. Mai noiosa o presuntuosa. Elegante, come si usava essere un tempo, quando tra forma ed essenza vigeva un patto cavalleresco di mutuo soccorso. Oltre al registro elegante, Barnes sceglie il personaggio storico, Dmitrij Šostakovič il grande compositore russo del Novecento, e con lui anche il luogo e il tempo, la Russia sovietica dall’era staliniana fino agli anni Sessanta. La scelta di Šostakovič come interprete della storia rivela risvolti inconsueti anche rispetto alla (gloriosa e ancora non abbastanza nota) letteratura russa di epoca sovietica, perché Šostakovič non è emblematico in senso canonico. Šostakovič non si inquadra bene nella tradizione letteraria del periodo. Non è un esule e nemmeno un deportato nei gulag, quindi non ha le stimmate del martire, però non è neppure un allineato, non è un fiancheggiatore o un irregimentato; non è un artista maledetto, non si è suicidato e non lo si ricorda roso dal tormento esistenziale. Non era un ubriacone, non si drogava e non esibiva nessuno dei vizi letterariamente russi. Non lo si può neppure dire un genio incompreso poiché ebbe fama e onori, ma nemmeno un artista emblema del potere perché a lungo venne osteggiato e perfino vietato. Šostakovič è un personaggio assai poco letterario, è sfuggente, acquerellato, troppo morbido per dargli una forma ben definita.
Qui sta l’intelligenza di Barnes che sa come usare il talento di scrittore. Sceglie Šostakovič come personaggio proprio per queste sue caratteristiche antiletterarie e attorno gli costruisce un romanzo elegante, raffinato, che accarezza il gusto tornito dall’aver attraversato molte pagine e molte storie e molti stili. Šostakovič antiletterario diventa suo malgrado emblematico di un’epoca apparentemente antiletteraria, di un’arte che non si presta alle grandi storie, di un mondo privato dell’epica della sopravvivenza. Barnes scrive un romanzo russo senza la letteratura russa. L’effetto può confondere, gioca su sfumature e un lento muoversi di molti ingranaggi narrativi che guadagnano momento, come un gigante assopito muove lentamente le membra pesanti.
Parla di Šostakovič e della sua vita di artista sul crinale tra il successo come campione della grande madre Russia e la punizione per insubordinazione. Šostakovič è un antieroe che fa resistenza passiva, non fugge, non aizza, non complotta. Si difende come può, col mediocre coraggio dell’uomo qualunque e l’ostinazione testarda dell’artista. È un uomo solo al quale il Potere si rivolge con Voce che in quegli anni sovietici riempiva di terrore.
Mescola gli ingredienti Barnes, lentamente, paziente, cesellando e rimanendo ad altezza non per profani. Fa brillare riflessi kafkiani, per poi ritrarsi nel grigiore sovietico opprimente. Šostakovič compone ostinato e ostinato il potere lo getta nel fango, lo insulta, Caos non musica esclama Stalin e la frase riecheggerà a lungo. Trascorrono gli anni, si susseguono le pagine, l’uomo attraversa le diverse epoche del Potere e non rimane immutato ma si deforma, si trasforma anch’egli, non cede alle lusinghe o alla paura, nemmeno alle lusinghe dell’esilio o alla paura del martirio. Cede alla fatica della vigliaccheria, alla costante tensione della resistenza passiva, allo sforzo dell’opposizione a corpo morto.
Ed è qui, mentre si avvia a stringere le corde per il finale, mentre sta preparando il suo Šostakovič per l’ultima epoca, quella della modernità e della vecchiaia, che Barnes scrive la grande pagina che aveva in serbo, che aspettava di svelare solo quando l’incertezza avesse preso il sopravvento sulla storia e il lettore stesse cercando di recuperare i punti cardinali. Questa è una grande pagina, di un grande scrittore.
Ma era proprio qui che si sbagliava. Prima, era la morte; ora, la vita. Prima, la gente si cacava sotto; ora, poteva dissentire. Prima, esistevano gli ordini; ora, i suggerimenti. Dunque i suoi Colloqui col Potere divennero, senza che in un primo momento se ne accorgesse, più pericolosi per l’anima. Prima, misuravano i confini del coraggio; ora, quelli della vigliaccheria. E procedevano con metodo e competenza, con professionalità energica ma a conti fatti disinteressata, come preti impegnati a salvare l’anima di un moribondo.
Personalmente ne sapeva pochissimo di arti visive, e non avrebbe perciò potuto discutere con quel poeta sul tema dell’astrattismo; ma conosceva Picasso come un bastardo e un vigliacco. Facile fare il comunista per uno che non viveva sotto il comunismo! Picasso aveva passato la vita a dipingere la sua merda e a inneggiare al potere sovietico. Ma diononvoglia che un povero piccolo artista schiacciato dal regime si azzardasse a dipingere come Picasso. Lui era libero di dire la verità; allora perché non la diceva a nome di chi era imbavagliato? Macché, preferiva spassarsela da riccone a Parigi e nella Francia meridionale dipingendo mille volte la stessa squallida colomba della pace. Non la sopportava quella cazzo di colomba. E non sopportava la schiavitù delle idee tanto quanto quella del corpo.
Bel libro. Molto bello. Gran scrittore Julian Barnes, è un piacere leggerlo.
potrebbe scrivere un libro sulla Achmatova o la Cvetaeva.
anche su di loro ci sarebbe tanto, tanto da scrivere…
Assolutamente e totalmente d’accordo (per una volta che conosco autore e libro)! Molto bello anche il post. Io, non sapendo scrivere, amo trovare chi riesce a riversare sulla pagina ciò che sento e penso, e qui mi ci sono ritrovato.