«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
SVEGLIARE I LEONI
Ayelet Gundar-Goshen
Traduzione di Ofra Bannet e Raffaella Scardi
Giuntina 2017
State a vedere come faccio l’equilibrista questa volta. Un colpo al cerchio e uno alla botte. Dire senza dire, senza anticipare, senza orientare. Proprio cosí. Quello che ho da dire di Svegliare i leoni è un solipsismo che richiede molte spiegazioni, frasi involute e incisi prudenziali. Vi scrivo un bugiardino, praticamente. Mi barcameno, con un certo imbarazzo.
Sì perché in questo caso devo lodare un libro che altrimenti avrei giudicato mediocre. Il termine “altrimenti” è usato qui nel senso che se seguissi l’istinto che mi porta a cercare l’isolamento, la zona disabitata, la nicchia popolata da rari esseri pensierosi, insomma la contea degli introversi per di più timidi e con tendenze narcisistiche, direi senza tanti giri di parole che Svegliare i leoni è un libro modesto e gli apprezzamenti che sta ricevendo ne confermano l’inesorabile modestia.
Questo se mi lasciassi andare all’istinto. Tuttavia l’età porta non certo saggezza, ma cinismo sì e cinicamente non do più molto credito a queste sceneggiate dell’istintivo antisociale che opiniona avvelenato dal suo angolo polveroso. In altre parole, capisco i limiti comunicativi ed espressivi del narcisismo intransigente e allora alzo lo sguardo al muro di finestre illuminate del palazzone di edilizia popolare che ho di fronte e mi dico Va bene, parti pure dall’angolo pulcioso ma fatti un giro, guardati intorno, constata, incredulo se vuoi, che puoi sopravvivere anche fuori dalla zona disabitata.
In questo modo non cambio idea sulla modestia letteraria di Svegliare i leoni se misurato su una scala assoluta, che va, diciamo dal minimo sindacale di un Bulgakov o un Fante fino agli spazi iperuranici di un Onetti o un Dostoyevsky. Amplio però il ventaglio di possibilità concedendomi la debolezza di accettare l’esistenza di scale relative, se non altro al tempo presente, per non dire alla vita mi capita di vivere. Allora, relativisticamente parlando, Svegliare i leoni è un libro che ha tutto per piacere e infatti, giustamente, piace, inclusa anche una certa superficie non del tutto sgrezzata che però dona all’opera e all’autrice quel piacevole sapore di buon artigianato di una volta.
Svegliare i leoni è una sorta di action movie in forma di libro, con questo voglio dire che racconta una vicenda piuttosto movimentata e dotata di una certa suspence utilizzando uno stile cinematografico. Questo impedisce categoricamente di accennare neppure vagamente alla trama e chi lo fa è un rovina sorprese (trovatene uno, se siete capaci, di re-censori col bollino che abbia avuto la grazia di trattenersi da anticipare tutte le svolte della storia nello scrivere il pezzettuccio che andava a scrivere).
Sia come sia, volendo comunque parlare del libro, anche in virtù della geroglifica premessa, mi soffermerò solo sui dettagli insignificanti e trascurabili.
Dicevo dello stile cinematografico. Sarebbe forse meglio dire da serie televisiva, che è senz’altro più al passo coi tempi. I personaggi di Gundar-Goshen si succedono a scansioni temporali definite, come puntate ben calibrate da mano esperta. Ognuno porta avanti la vicenda per un tratto, poi cede il testimone narrativo. Per un pezzo la storia si rimpalla tra tre protagonisti, poi ne entrano altri minori a fare volume. La narrazione è didascalica: piani sequenza, introspezioni, flash back, dialoghi, campi lunghi, riprese notturne, corse e inseguimenti, incomprensioni e silenzi decorati di commenti. Ogni tanto qualche cedimento a un lirismo troppo patinato e una bizzarra attrazione per la materia fecale, tutte cose che un editor meno tollerante avrebbe amputato con un colpo di mignolo. La lingua che usa Gundar-Goshen è piana, semplice, senza esotismi o svirgolate artistiche. È una lingua per il popolo, si sarebbe detto in certi tempi eroici quando il popolo era ancora un’entità non comica, una lingua lontana da avanguardie di geometrica rarefazione o lettori bohemien narcolettici. Di matrice popolare è anche la continua necessità di spiegare le vicende. Gundar-Goshen spiega, dipana, da maestrina paziente che non lascia indietro nemmeno il più lento tra i suoi piccoli alunni. Romanzone nazionalpopolare, lo si sarebbe definito ai tempi di Baudo e la Cuccarini, afferra e massaggia la panza flaccida del lettore di Voghera, trasportandolo dentro una storia che arpiona e non molla più (ho fatto le tre di notte per finirlo, con sveglia alle sette, mannaggia a te Gundar-Goshen). Svegliare i leoni mostra l’apparente mediocrità della casa linda e con tutte le suppellettili in perfetto ordine, eppure, per quanto si provi a criticarlo non si può non ammettere che funziona con cronometrica efficienza. La storia usa magistralmente tutte le leve più scontate della letteratura d’intrattenimento per farsi trascinante, dal sentimentalismo al drammone, con continue incursioni di bambini tremanti e donne vittime sacrificali. È assumendo questi ingredienti zuccherini e insalubri che si finisce avvinghiati al libro dalla prima all’ultima pagina.
Nel frattempo, mentre l’inebriato lettore s’avvinghia, Gundar-Goshen disegna sullo sfondo la scena che realmente le interessa. Non è l’intreccio matrimoniale da borghesia in decadenza che ha attraversato più di una pellicola californiana il vero film che sta girando la regista israeliana. Quello è il dolcetto per ingolosire e farsi seguire docilmente. E nemmeno un presunto pamphlet sugli immigrati e le ipocrisie dei ricchi borghesi, come altri frivolamente hanno cinguettato. Il film che sta scorrendo sul telo nello sfondo è crudo, cinico, arido come il deserto nel quale è girato. Ma è un film con la cinepresa rivolta al contrario, un film su chi guarda il film. È il film che scorre perpetuamente lontano dalla scenografia da teatro che ci appartiene e nella quale noi stessi siamo comparse che attraversano il palco. I lettori sono la scenografia dello spettacolo. Sono parte in causa, attori di commedia. Non è su quel palco, il nostro palco, che si svolge la vita reale, ma è fuori dal teatro, in un altro mondo, invisibile e irreale per gli abitanti del mondo irreale della commedia.
Gundar-Goshen a una prima impressione sembra avere lo sguardo matronale della scrittrice di romanzoni nazionalpopolari, ma in realtà ha uno sguardo metallico, privo di empatia, di chi scruta la desertificazione che ormai si è appropriata di ogni cosa intorno, a perdita d’occhio, irreversibile. E usa i lettori come materiale di scena.
Nel mondo irreale del teatro, la storia ha un lieto fine. Non così nel deserto che lo circonda.
“allora alzo lo sguardo al muro di finestre illuminate del palazzone di edilizia popolare che ho di fronte e mi dico…”
Te lo dico da snob quale sono, quasi quanto te: non mi pare che sia un libro così popolare, nel senso che non l’ho proprio visto in giro, nè ne ho letto commenti entusiastici; comunque condivido in parte quello che dici, l’eccessivo didascalismo sopratttutto, però come te ho apprezzato il ritmo serrato, non sarà Proust ma forse stavolta sei stato troppo critico (anche con te stesso imho). ciao
Io sono snob? Non sono nazionalpopolare?
Mah, qui c’è il problema della prospettiva attraverso il web e i social che non si capisce mai quanto limitata sia. Da quel che leggo io è un libro di cui si parla parecchio, ma appunto, forse se ne parla parecchio in ambiti limitati. Dici che sono stato troppo critico? Forse hai ragione, ma ha qualcosa che al mio gusto risulta sgradevole, forse troppi sottotesti, forse troppo calcolato per piacere a un certo tipo di lettore, forse troppo costruito.