«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
LE NUVOLE
Juan José Saer
Traduzione di Gina Maneri
laNuovafrontiera 2017
Faccio una premessa: io sono un devoto di Saer, o per meglio dire, sono un devoto di Cicatrici scritto da Saer, uno dei grandi libri del Novecento, a mio modo di vedere. Il resto di quanto pubblicato in Italia di Saer, poco e talvolta tradotto malissimo, come fu la prima edizione de L’indagine, fortunatamente poi ritradotto dalla mano esperta di Gina Maneri sempre per laNuovafrontiera, dimostra la duttilità e il talento dell’autore ma non si avvicina alla sinfonia notturna che è Cicatrici.
È da poco uscito questo Le nuvole, libro del 1997, atteso e bramato da un anno o forse più tra carbonerie di devoti saeriani, e per questo capirete bene che la foga del devoto sovraeccitato era tale e tanta da non poter resistere più di una decina di giorni senza leggerlo, violando così la regola di buona educazione e sana alimentazione che mi sono imposto, consistente nell’attendere almeno un mese dall’uscita di un libro prima di leggerlo (possibilmente di più), questo nella speranza di smarcarmi dalla caciara regolarmente provocata da re-censori, opinionisti, autori di fascette, articolini e articolesse, boxini, pubblicità, publieditoriali, interviste, fotografie con guarnizione o presentazioni, e invece farmi i fatti miei in santa pace. Però a tutto c’è un’eccezione e i casi eccezionali vanno rispettati. Il riemergere dalle nebbie dell’oblio di un libro di Saer mai apparso in Italia è senz’altro uno di questi.
Le nuvole non delude, nonostante le aspettative fossero stellari. Anzi, Le nuvole sprigiona quella miscela sofisticata fatta di periodi lunghissimi che via via si distendono sempre di più e personaggi che lentamente si rivelano in una ruota del destino che prende velocità e gira, prima lentamente, impercettibile, quasi in una sospensione degli eventi e della trama che pone interrogativi e disamora, poi la grande ruota prende forza e fa volare via i primi brandelli di parola, poi frasi poi interi paragrafi, infine sprigiona la piena potenza della prosa di Saer che diventa maestosa, trascinante come un cielo largo e turchese. Saer nella sua migliore vena creativa è così, un serpente che indolente si muove appena, ma che nasconde balzi e scatti prodigiosi.
Le nuvole non è un libro di facile passione, né di semplice interpretazione. Come forse tutti i grandi scrittori, di certo come tutti i grandi argentini, Saer dispone di molti piani poetici e semantici e li usa senza curarsi di rendere facile la vita del lettore, anzi, senza curarsi minimamente dell’egoismo dei lettori. È bene non dimenticare che i lettori non sono persone perbene, nemmeno persone simpatiche e tanto meno persone educate. I lettori sono una compagnia da evitare il più possibile e senz’altro da non omaggiare mai. Solo i mediocri tra gli scrittori omaggiano i lettori, compito di bassa lega che andrebbe lasciato a quei mercanti degli editori. Ecco vedete? Questi sono gli effetti di una lettura ravvicinata rispetto all’uscita, mi trovo costretto a mettere in guardia dalla mondanità mercantile e anche a scrollarmi di dosso un certo fastidio per il brusio che ancora non tace.
Partimmo dunque all’alba del primo agosto del 1804. Se qualcosa, tra i tanti avvenimenti, vicissitudini, anomalie o comunque li si voglia chiamare che costituirono il nostro viaggio, se qualcosa, dicevo, potesse rappresentare la cifra di ciò che incombeva su di noi, basterebbe forse il modo assurdo con cui si inaugurò il cammino, ovvero il fatto che, sebbene la nostra meta si trovasse a sud, fu a nord che la carovana si diresse, e che dovemmo procedere per un paio di giorni in quella direzione prima di piegare a ovest al fine di ritrovare la nostra vera rotta.
È un viaggio quello che racconta Saer, una carovana di pazzi e di soldati guidata da un medico attraverso il deserto ostile, pieno di insidie. Voi penserete dunque che questa sia la storia, ma cosí non è, non solo, non del tutto. Prima di giungere alla partenza, quella del brano che ho trascritto, passa la gran parte del libro, passa senza un motivo ben dichiarato. Saer presenta i personaggi, il dottore, i pazzi, i soldati, allunga le frasi, i periodi e il prologo. È la ruota che lentamente si mette in moto. Richiede pazienza, pretende ozio, precede il deserto, il luogo per eccellenza della pazienza e dell’ozio. Chi soccombe nel deserto è colui che vi è giunto già stremato dalla frenesia e dall’impazienza. E nei deserti vagano i miraggi, si sa, ognuno vede quelli che vuole che gli attraversino l’orizzonte surriscaldato, la natura nei deserti è grandiosa e impietosa, sono i luoghi degli estremi i deserti, estremo calore, estremo silenzio, estrema violenza, estrema bellezza, estrema solitudine, estrema follia, estrema libertà, estrema assenza di destino e di memorie.
Grandi scrittori, insieme a Saer, hanno raccontato storie nei deserti. Deserti di molti tipi e forme differenti. Deserti di sassi e deserti di sabbia, ma anche deserti di acque e deserti di fiume, perfino deserti di asfalto o deserti immaginari. In lento movimento o immobili, in attesa dello scatenarsi degli eventi, un vulcano, una tempesta, un vento o anche un’orda di predoni o un’armata. L’attesa è essa stessa un deserto, quello dell’anima. I deserti sono uno dei palcoscenici preferiti dai narratori della pesante ruota che si mette in movimento. Coetzee e Buzzati e Feinmann e Melville e Conrad, per dirne alcuni tra i grandissimi. E Saer, insieme a loro. Non aggiungo altro, non interpreto i pazzi e nemmeno la natura, non spiego le metafore e men che meno pretendo di fornire consigli.
Un’idea assurda mi colpì: mi dissi che, esiliato dal mondo che mi era familiare, e in mezzo a quel silenzio smisurato, l’unico modo di evitare il terrore era sparire a mia volta, e che se mi concentravo abbastanza il mio stesso essere si sarebbe cancellato trascinando con sé nell’inesistenza quel mondo in cui cominciava a intravedersi l’incubo. Ma la mia coscienza resisteva, ribelle, sussurrandomi: se questo luogo estraneo non fa perdere la ragione a un uomo, o non è un uomo, oppure è già pazzo, perché è la ragione a generare la pazzia.
Il deserto risponde soltanto al grido, all’ultimo grido già avvolto nel silenzio, dal quale sgorgherà il segno : poichè si scrive , sempre, lungo i confini indeterminati dell’essere. ( Edmond Jabès )
Un giovane indiano mi ha insegnato che la vita esiste perchè di ogni cosa c’è il suo contrario.
Questa potenza spira da Saer.