«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
SABBIE BIANCHE
Geoff Dyer
Traduzione di Katia Bagnoli
il Saggiatore 2017
Geoff Dyer a me ormai ricorda Johnny Depp, con le dovute proporzioni, come si dice di solito in questi casi. Bravo, bello, magnetico, vanitoso, talentuoso, interprete di alcune prove ottime e di una lunga serie di mezze (o intere) schifezze. Geoff Dyer, per come lo conosco essendo giunto al quarto libro, è grossomodo così.
Geoff Dyer, uno dei campioni della fiction mescolata alla non-fiction. Pare, ma posso sbagliarmi, che ad alcuni piaccia dire “non fiction” e anche di più dire “fiction mescolata a non fiction”. Lo cito per la cronaca, visto che a me di fiction e non-fiction non interessa nulla, leggo indifferentemente una e l’altra, se mescolano o non mescolano per me facciano un po’ come vogliono, visto che alla fine qualità e interesse si distribuiscono comunque senza badare ai generi dei cocktail. Questo vuole anche dire che, così come esiste molta pessima fiction, altrettanto esiste molta pessima non-fiction, e Sabbie bianche ha una certa propensione a rientrare proprio in quest’ultima categoria.
E qui ritorniamo a Johnny Depp, perché la non-fiction scarsa somiglia molto ai suoi pessimi film: dozzinali, grossolani, incentrati sul nome del divo e malinconicamente segnati dal sospetto che il divo abbia dei creditori da soddisfare con una certa urgenza e non abbastanza fido in banca. Io mi chiedo se anche Geoff Dyer abbia, con le dovute proporzioni rispetto ai divismi di Depp, delle bollette in sospeso oppure una fattura del dentista, l’auto da riparare o semplicemente pochi soldi per andare in vacanza. Mi chiedo cosa spinga Dyer a raffazzonare un libretto come Spiagge bianche rispolverando pezzi di intrattenimento comparsi su varie riviste per rilegarli in una pubblicazione insipida della quale non si sentiva la mancanza e che, almeno nel mio caso, produce l’effetto di trasferire Dyer dalla lista degli “Autori che già mi hanno fregato una volta” alla lista degli “Autori che mo’ prima di leggerti ancora ci penso un bel po’”.
I pezzi che si allineano in Spiagge bianche sono i tipici pezzi leggeri che una rivista come il New Yorker pubblica per far rilassare i suoi lettori tra momenti di maggiore concentrazione e lavorio intellettuale. Sono commediole con Dyer come protagonista (a volte un po’ mascherato) in giro per il mondo. Un po’ facendo l’anti-turista che racconta delle delusioni di certi luoghi che dovrebbero essere paradisiaci, un po’ proponendo brevi sit-com con la moglie, un altro po’ inventandosi raccontini tra l’esotico e il distopico.
Insomma, sketch, gag, scenette da cabaret della non-fiction che stanno insieme solo per prossimità delle pagine. Probabilmente erano piaciuti come intermezzi frivoli in numeri di riviste dall’alta densità intellettuale; messi uno dietro l’altro, costringendo quindi a passare di frivolezza in frivolezza, di intermezzo in intermezzo, di scenetta in scenetta l’effetto cambia parecchio e non è granché piacevole, come un inutile spettacolino di periferia. Non so cosa altro aggiungere.