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«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

La ferrovia sotterranea – Colson Whitehead

LA FERROVIA SOTTERRANEA
Colson Whitehead
Traduzione di Martina Testa
SUR 2017

Esce tra pochi giorni in edizione italiana, io lo leggo nella versione originale, perché incuriosito da certi commenti che sembravano non riuscire del tutto a raccapezzarsi con questo libro, un po’ impacciati, goffi nell’apprezzarlo, quasi un balletto di vorrei dire ma non so se posso, vorrei sembrare ma non so se riesco. Insomma, a parte le solite voci fastidiose da pubbliche relazioni, del libro o di se stesse non so, ho percepito un curioso spiazzamento nei riguardi di un libro americano contemporaneo che, ho pensato, forse esce dal canone melenso della tipica letteratura americana contemporanea che va tanto di moda in questi tempi smidollati.

E in effetti, Colson Whitehead scrive una storia che non soltanto sovverte qualche canone, una pretesa letteraria onnipresente e quasi banale, ma mescola alcuni ingredienti in una ricetta che ha una certa pretesa, non del tutto campata in aria, di originalità.

La storia è di schiavismo nelle sterminate piantagioni di cotone del sud degli Stati Uniti, quindi possiamo approssimativamente collocarci nella prima metà dell’Ottocento, comunque prima della guerra di secessione tra stati Confederati e stati Unionisti. Determinare un riferimento storico però non è indispensabile e forse anche sbagliato da assumere. Nel senso che per quel che sappiamo della storia, la vicenda potrebbe benissimo essersi svolta in un tempo e luogo completamente immaginario, dove nessuna guerra civile americana si è svolta e lo schiavismo non è mai stato abolito dagli stati del sud.

Questo non è un romanzo storico. Chi lo assume come tale fa una supposizione del tutto arbitraria (e si perde gran parte del gusto, dico io).

La storia segue la vita della protagonista, Cora, giovane schiava in una piantagione della Georgia. La storia è quella di una fuga per la libertà, dagli orrori della schiavitù verso un mitico nord nel quale anche i neri sono liberi. Niente di originale in questo, anzi, storia classica, raccontata molte volte, cinematografata, televisiva, mitizzata, manipolata e distorta a piacere da chiunque, razzisti e attivisti, liberal e conservatori. Storia ancora non conclusa, come l’attualità ci ricorda, le immagini degli orrori dello schiavismo americano toccano corde sensibili nelle coscienze di molti e forse hanno una funzione civica per i moltissimi con evidenti problemi di memoria. Tuttavia, chi leggendo il libro si accontenta di questo, si accontenta dell’attualità.

Whitehead fa un’altra operazione, sfruttando la vicenda tradizionale della storia americana e anche il momento propizio per toccare certi temi: scrive una storia gotica della natura dell’uomo.

Leggendo il testo – nella versione originale è molto evidente – si percepisce quasi subito un ritmo anomalo della lingua. È una lingua piatta, monotona, non ci sono mai accelerazioni, è priva di pathos, volutamente ed esplicitamente recitata in sordina. Ricorda per certi versi la lingua di Kent Haruf, anche se l’effetto risulta opposto: qui è straniante e cupo, in Haruf era conciliante e consolante. Il motivo di questo effetto straniante è che la monotonicità della lingua è usata per descrivere l’orrore più disumano, sono cerchi da inferno dantesco quelli che attraversa Cora nella sua fuga, l’iconografia gotica si ripropone nelle efferatezze e nel clima orrorifico, e c’è un senso di ineluttabilità che sale dalla narrazione, le peggiori atrocità commesse dai bianchi nei confronti degli schiavi neri, il sadismo e la crudeltà che si autocompiacciono di andare oltre ogni limite immaginabile sono espressioni della biologia dell’uomo bianco.

I bianchi sono mostri, dice Cora, e quello è esattamente il senso della storia, che si fa distopica perché la mostruosità dei bianchi non è figurata o contestualizzata o circoscritta ad alcuni casi, ma è letterale e connaturata. I bianchi sono creature aliene giunte da non si sa quali oscurità abissali o iperuraniche che per loro natura si nutrono delle carni straziate dei neri. I bianchi non sono umani, i neri sono l’unica razza umana, i bianchi sono belve a caccia di neri, nella storia non esiste morale, non c’è colpa e redenzione; la fuga di Cora è una fuga non solo dalle catene, ma da una ferocia inumana. E inumano è infatti il cacciatore di schiavi che la insegue, inumani sono i medici del South Carolina e i cittadini tutti del North Carolina, inumana è la posse che attacca e distrugge. Inumani, ancora una volta, in senso letterale non solo figurato. Questo orrore senza forma e senza confini permea tutta la narrazione.

In questa atmosfera di irreale disumanità e distopia, anche l’invenzione della ferrovia sotterranea usata dagli schiavi per fuggire a nord risulta verosimile, pur nella sua ovvia inverosimiglianza. Non è un romanzo storico La ferrovia sotterranea, nemmeno un romanzo con una morale, sfrutta l’attualità per descrivere il riflesso distorto di un mondo cupo e senza speranza, nel quale Cora potrà diventare la vostra eroina, potrete soffermarvi sul messaggio antirazzista, potrete perfino discettare sui mali dell’America, passata e presente, ma tutto questo non cancellerà il fatto che la voce del narratore, monotona e irreale da blues negro delle piantagioni, sta dicendo che l’orrore è ineluttabile, il bene non trionfa, un senso non esiste e noi siamo mostri.

Bello, di un’altra categoria rispetto al deludente Exit West di Hamid al quale alcuni lo accostano. Riesce a far sanguinare i pensieri, a differenza dell’innocua pretenziosa omogeneità del tipico scrittore contemporaneo americanizzato.

2 commenti su “La ferrovia sotterranea – Colson Whitehead

  1. karenina
    27 settembre 2017

    Di questo autore apprezzai a suo tempo John Henry festival; non mi attira molto l’ambientazione “storica” ma mi hai incuriosito. Concordo sulla mediocrità di Exit west, deludente.

    • 2000battute
      27 settembre 2017

      L’ambientazione storica in realtà è solo un possibile modo di leggere questo libro, il più scontato direi, quello che riportano le recensioni dei giornali. Il libro può essere letto senza di quella, come opera di fantasia, in una storia immaginaria e distopica. Certo parla di piantagioni di cotone americane e di schiavismo degli stati del sud, ma poi inserisce un elemento fantastico e anche i personaggi assumono tratti talvolta irreali. Io l’ho letto in questo modo, e per questo l’ho apprezzato. Se l’avessi considerato esclusivamente come romanzo sugli orrori della schiavitù americana mi avrebbe suscitato molto meno interesse.

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Questa voce è stata pubblicata il 23 settembre 2017 da in Autori, Editori, SUR, Whitehead, Colson con tag , , , .

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