«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
IL MONDO NUOVO
Aldous Huxley
Traduzione di L. Gigli e L. Bianciardi
Mondadori 2016
Ritorno a Brave new world nell’edizione originale dopo un bel po’ di anni da quando lo lessi la prima volta, ancora in originale perché era la lettura da fare per la scuola d’inglese. E ci ritorno perché era una suggestione che continuava a circolare, citata, ricordata, sgusciava fuori dagli angoli più insoliti. Brave new world viene da molti citato come il vero libro profetico del tempo presente, non Orwell ma Huxley colui che nei primi del Novecento aveva intuito gli anni 2000.
Neil Postman, in Amusing ourselves to death, saggio del 1985 che ho letto recentemente, celebre nel mondo anglosassone ma semisconosciuto da noi – ne esiste un’edizione italiana di Marsilio del 2002 dal titolo Divertirsi da morire – nella sua critica demolitrice della televisione usa proprio il mondo distopico di Aldous Huxley della felicità eterna contrapposto all’oppressione orwelliana come riferimento fondamentale per interpretare il presente televisivamente omologante degli anni ’80.
Nelle sabbie mobili del tempo presente, chiunque dispone di conoscenza sufficiente e strumenti d’analisi non può fare altro che annaspare nell’incerto futuro, ancora il brave new world di Huxley che rimbalza come un salvagente interpretativo. Occorre rileggerlo – mi sono detto.
Il libro è del 1932 e immagina una società umana proiettata in un futuro ipertecnologico di diversi secoli successivi. Il mondo novecentesco è una lontana reminescenza che solo pochi conoscono ancora e vaghe tracce permangono nei documenti storici. La distopia è quella classica del mondo tecnocratico e iper-razionale nel quale l’ordine e l’omologazione scientista sono legge e principio fondante. Le anomalie sono state espulse dal sistema vivente, i difetti, le brutture, le tragedie, le paure e la tristezza sono malanni di un passato remoto. Il mondo nuovo è un mondo di persone perennemente nello stato di felicità che vivono una vita priva di dolore e angoscia. Con linguaggio aziendalista diremmo che la società è stata reingegnerizzata e ottimizzata al fine di favorire la condizione di felicità. Non esistono i dolori della morte, delle malattie e del parto, non esistono le angosce provocate dall’amore, dall’odio, dai tradimenti, non esiste l’instabilità ansiosa della famiglia e del benessere dei figli. Nell’idealismo primo novecentesco di Huxley, la tecnologia avrebbe potuto sterilizzare e rendere asettica la società eliminando l’elemento casuale.
Questa è la visione huxleiana, il paradosso di un mondo scientificamente progettato per creare felicità, e che effettivamente rende felici i suoi abitanti, ma che evidentemente appare mostruoso agli occhi del lettore. È chiaro il motivo della mostruosità: quello che più noi consideriamo come inerentemente umano è stato eliminato. In cambio di una felicità che ci costringiamo a ritenere inautentica, artificiosa, di plastica.
Eppure questa è puramente una nostra speculazione. Noi falsifichiamo la storia convincendoci che la felicità garantita dal mondo nuovo sia meno reale della nostra.
Poi la storia prosegue con una vicenda che in parte sovverte la costruzione e consola il lettore – l’ingenua epopea del buon selvaggio e degli sparuti oppositori emarginati sull’isola – ma si tratta di un artificio narrativo per un libro che vuole essere prima di tutto di intrattenimento leggero.
Rimane tuttavia quella intuizione iniziale, il paradosso insoluto e insolubile che ci costringe a falsificare la storia della quale percepiamo chiaramente l’impostura. È un gioco psicologico di nodi che si stringono quello che Huxley riesce a costruire, appena siamo certi di avere una interpretazione autentica, siamo altrettanto certi di essere stati catturati dal paradosso. Vogliamo avere un manuale di istruzioni per il mondo moderno, ma nel far questo infiliamo volontariamente la testa in un cappio paradossale. Non se ne esce, più ci si agita e più si stringe.
Il mondo nostro, l’ipertecnologia e l’angoscia che sta montando, la disgregazione di costruzioni sociali e lo stato di inebetimento come regola dell’esistenza ci richiamano la condizione di felicità polimerica di Huxley. Ugualmente riconosciamo i segni dell’orrore nella nostra artificiosità digitale come nello scientismo huxleiano.
Siamo creature deboli e smarrite in cerca di consolazione. La cerchiamo in una favoletta di quasi un secolo fa – questo è Brave new world, una favoletta – in una fascinazione tragica, in un paradosso che viviamo sulla pelle e del quale cerchiamo le tracce nella memoria.
Si può leggerlo o rileggerlo, in qualche caso forse si deve leggerlo o rileggerlo, non certo per trovare una spiegazione ai nostri dubbi o una risposta alle nostre domande, ma per specchiarsi in una pozza d’acqua e osservare il nostro volto riflesso. Un volto angosciato, di bestia che ringhia impaurita o cerca una tana nella quale nascondersi e aspettare. Inutilmente. Come fu inutile quasi un secolo fa.