«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
LA MORTE DEI CAPRIOLI BELLI
Ota Pavel
Traduzione di Barbara Zane
2013 Keller
I racconti di Ota Pavel, il cui vero nome era Otto Popper, lasciano col sorriso e una sensazione di dolcezza. Penso che questo sia il motivo per cui sono amati. Hanno lo stile comune a molte storie ebraiche, con quel gusto per il controsenso che le rende allegre e, appunto, sorridenti. Alla malasorte si reagisce con ironia un po’ clownesca e con ostinazione da formiche. Capitano sempre grandi sventure nelle storie ebraiche, ma lo scopo del raccontare sembra essere quello di far tornare il buonumore.
Ne La morte dei caprioli belli, Ota Pavel applica fedelmente il canovaccio della storia ebraica e lo fa con delicatezza e ironia, addirittura sorprendente ironia. In fondo, si potrebbe pensare, racconta delle leggi razziali e delle deportazioni nella Cecoslovacchia invasa dai nazisti e per di più racconta di quanto ebbe a soffrire la propria famiglia, eppure, ne sono certo, chiunque li legga, me compreso, termina la lettura con un senso di leggerezza divertita.I caprioli, ma ancor più le carpe di Leo Popper, padre di Ota Pavel e protagonista dei racconti, sono uno dei tonici migliori per l’umore. Questo è straordinario, rappresenta la straordinarietà di molta letteratura di tradizione ebraica, Bernard Malamud per citarne uno, ma anche di molta letteratura di autori che hanno scritto in tempo di guerra e di persecuzioni. Per restare in Cecoslovacchia, Il buon soldato Sc’vèik è uno dei capolavori del genere.
Quindi, Ota Pavel incanta e diverte con le vicende tragicomiche della propria famiglia in tempo di nazismo. Il tutto apparentemente senza sottotesti o architravi, rovesci della medaglia e letture oblique. La sorridente leggerezza della sua voce è reale.
Eppure, a leggere la biografia di Ota Pavel sono rimasto pietrificato. Sono solo l’ennesimo che rimane pietrificato, sto ricalcando uno schema anche io. Pavel di mestiere faceva il cronista sportivo, con un certo successo per lo stile narrativo coinvolgente. Nel 1964 si trovava a Innsbruck per seguire la squadra olimpionica cecoslovacca quando, in maniera apparentemente improvvisa, impazzisce. Impazzisce nel senso che viene colpito da un grave e violento raptus psicotico, maniaco-depressivo e schizofrenico. Scappa, dà fuoco a un fienile, delira. Aveva 34 anni, e da quel giorno inizia a entrare e uscire da cliniche psichiatriche, fino al 1973 quando a 43 anni muore per arresto cardiaco. La morte dei caprioli belli e le altre opere narrative che lo hanno reso celebre, sono tutte state scritte nel periodo della malattia.
Quindi, si potrebbe concludere, certo in maniera avventata e grossolana, che la leggerezza divertita e la dolcezza dei racconti, sono il frutto della mente di un pazzo. Ovviamente questo pensiero è problematico, come lo sono sempre tutte le fratture nella logica sequenziale che vorremmo applicare per ritrovare un senso al mondo e alla vita. Improvvisamente irrompe il dolore e la sofferenza nella voce ironica e sorridente di Pavel, in modo inatteso, coglie di sorpresa e bisogna farci i conti, pur sapendo che non torneranno quei conti. La sofferenza psichica come innesco per la scrittura non sorprende, grandi autori sono stati tormentati da psicosi. Ma pochi di loro hanno tradotto lo stato di sofferenza in ironia e divertimento, i più lo hanno tradotto in visioni della sofferenza. Ota Pavel pone invece un problema radicale, una contraddizione che turba, si vorrebbe risolvere con una formula o semplicemente rileggendo le scarne note biografiche per disvelare una storia personale inconoscibile. Si fa sempre più forte la tentazione di pontificare, di squadernare ipotesi psichiatriche da incompetenti. Si avverte distintamente un bisogno corporale molto comune, quello di garantire prima di ogni cosa il proprio equilibrio. E allora tutte le spiegazioni valgono, rievocare Schumann o Walser o Dagerman per ricreare una tradizione, quasi un canone, collegare la dolcezza alla sofferenza, l’ironia alla mancanza di libertà della clinica, la contraddizione delle storie alla lucidità nel valutare la propria condizione di infermo. Vale tutto come specchio della propria paura di perdere l’equilibrio.
In realtà non ne sappiamo niente. Non c’è nessun indizio nei racconti e niente di più di una fredda cronaca esce dalle note biografiche. In realtà sappiamo che le cose non procedono quasi mai con una logica lineare che ci rassicura. In realtà sappiamo di non sapere, di essere degli inconosciuti. Le storie di Ota Pavel sono così morbide e avvolgenti che chiudendo gli occhi possiamo facilmente immaginare di ascoltarle di prima mano durante una serata d’autunno, raccontate da un amico divertente e immaginifico. Questo è il grande inganno che ci confezioniamo. In realtà, vengono da una voce priva di corpo, immateriale, un’anima inconoscibile.
Questo è un libro perfetto da regalare e da ricevere in regalo, come gesto affettuoso, come gentilezza delicata, ma anche per ricordarci di sorridere, solo per il piacere di rendersi leggeri. Io ho molto sorriso.
Lo leggerò e molto probilmente lo regalerò ad una mia amica ebrea, molto dotata di senso dell’umorismo. Non so ancora se a me il libro piacerà, di certo mi piace molto la recensione. Complimenti sentiti da una neofita di questo bellissimo sito. Simlis
Visto che nel caos della mia libreria non lo trovavo, mi sono presa quello nuovo, con una bellissima copertina fra l’altro, brava Keller!
io nel frattempo ho comprato Come i pesci
È il libro che ho regalato di più, però non ho avuto grandi riscontri, il tuo scritto mi conforta, forse ho sbagliato destinatari. Quel senso di dolcezza lieve mi è rimasto attaccato, mi sa che me lo rileggo. P.s. com’è vero che non si sa niente…