«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
CITIZEN – Una lirica americana
Claudia Rankine
Traduzione di Silvia Bre e Isabella Ferretti
66THAND2ND 2017
Un piccolo libro a tema sul razzismo subito dai neri americani, quasi un pamphlet, che ho letto nella versione inglese. È la delicatezza della voce narrante a contraddistinguerlo e la scelta dei piccoli camei di vita quotidiana, tanto da farlo quasi somigliare a una pièce teatrale, raccontati con l’ironia di chi sa che lo sciocco lettore bianco rimarrà stupito dalle vignette di razzismo quotidiano, il rumore di fondo costante che ronza e sfrigola e irrita le orecchie di alcuni, quelli di pelle scura.
Quello di Rankine è il razzismo involontario, diciamo “quasi” involontario, “quasi” inconsapevole, “quasi” ingenuo. Il razzismo dei piccoli gesti maldestri, da parte dei bianchi che ne hanno respirato e assorbito talmente tanto, da talmente tanto tempo, che faticano ad accorgersene, come fosse un’inflessione dialettale, un’abitudine. Il razzismo di Claudia Rankine somiglia al sessismo, al classismo, al bigottismo, a tutte le distorsioni sociali che pongono qualcuno sopra a qualcun altro per via del colore della pelle o del sesso o del cognome dei genitori o qualsiasi altra caratteristica uno si trovi alla nascita. Per cui in fondo i cittadini dell’America di Rankine sono nient’altro che i borghesi europei, dove le grandi distinzioni dinastiche sono state sostituite da una miriade di barriere e segregazioni che frammentano la società in enclave. Nel caso di Rankine, è il colore della pelle e tutta la narrazione che lo circonda.
Because of your elite status from a year’s worth of travel, you have already settled into your window seat on United Airlines, when the girl and her mother arrive at your row. The girl, looking over at you, tells her mother, these are our seats, but this is not what I expected. The mother’s response is barely audible—I see, she says. I’ll sit in the middle.
Grazie al tuo stato dopo un anno di viaggi, tu sei già sistemata nel tuo posto lato finestrino dell’United Airlines, quando la ragazza e sua madre arrivano in corrispondenza della tua fila. La ragazza, guardandoti, dice a sua madre, questi sono i nostri posti, ma non è quello che mi aspettavo. La risposta della madre è appena udibile – Vedo, dice. Mi siedo nel mezzo.
(mia traduzione)
Ecco i piccoli sketch, vignette, scene di persone composte che compiono gesti misurati, senza ostentazione, in un quotidiano rinnovarsi della segregazione che pervade la nostra società.
Questo libro è anche diventato emblematico, per certa intelettualità occidentale, di una protesta antirazziale, prontamente intercettata dall’industria editoriale che recupera, o finge di recuperare, una funzione sociale. C’è una piccola onda di pubblicazioni sul tema che ha visto la luce negli ultimi anni, anche a seguito del riacutizzarsi dello scontro razziale in molte periferie americane.
Rankine lo affronta con i modi eleganti della letterata raffinata e lo sguardo disincantato di chi non si abbandona a illusioni. Ma anche, a dirla tutta, lo affronta con i modi innocui della cultura alta che fa sentire la propria voce solo nella enclave di coloro più lontani dalla pancia del razzismo, sempre a voler attribuire una funzione sociale e non esclusivamente estetica. Anche questa è una delle dimensioni della società segregata: si parla in teatri, dietro porte chiuse, con voce flebilissima e linguaggio arcano.
La bellezza è un dono a cui esprimo sempre gratitudine.
Un buon mercoledì.
“Anche questa è una delle dimensioni della società segregata: si parla in teatri, dietro porte chiuse, con voce flebilissima e linguaggio arcano.”
In 22 parole ha condensato il limite di tanta bella letteratura “sociale”. Esiste. E ha il diritto di esserci. Se non altro per non impedire di sognare e per leggere queste parole :
“Noi inventori di favole, che crediamo a tutto, ci sentiamo in diritto di credere che non è ancora troppo tardi per intraprendere la creazione […] di una nuova e devastante utopia della vita, dove nessuno possa decidere per gli altri addirittura il modo in cui
morire, dove davvero sia certo l’amore e sia possibile la felicità, e dove le stirpi condannate a cento anni di solitudine abbiano finalmente e per sempre una seconda opportunità sulla Terra”. ( Gabriel Garcìa Marquez , dal Discorso di accettazione per il Nobel per la letteratura 1982 )
Una serena domenica
Ah! E dire che quella frase l’ho scritta senza pensarci particolarmente, però ora che me la fa rileggere, in effetti, mi è venuta bene.
Grazie Enza.