«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
REALISMO CAPITALISTA
Mark Fisher
Traduzione di Valerio Mattioli
Produzioni Nero 2018
GHOSTS OF MY LIFE – Writings on depression, hauntology and lost futures
Mark Fisher
Zero Books 2014
Seguendo pedissequamente l’onda della moda culturale che comodamente riscopre pensatori contemporanei solo quando il tempo e le circostanze li hanno resi innocui, sono arrivato anche io a Mark Fisher. A dirla tutta, ho saputo dopo avere iniziato a leggerlo nell’edizione originale che era appena stata pubblicata l’edizione italiana di Capitalist realism, di cui quindi ignoro la qualità della traduzione, primo titolo di Mark Fisher che appare in Italia. È chiaro che non si tratta di una coincidenza, il mio arrivo a Fisher non è il frutto di un naso da profumiere, come presunzione vorrebbe, ma il risultato di essere stato preso per il naso da una tenaglia invisibile e accompagnato fino alla mattonella intitolata a Mark Fisher. Come funzionano le onde culturali all’interno di gruppi omogenei è sempre affascinante, specie quando ci si accorge di essere uno dei soldatini in marcia.
La consapevolezza è il presupposto dell’autocoscienza e ha sempre natura politica.
Consapevolmente quindi mi sforzo di evitare di fingere che il Mark Fisher italiano, giunto sulle nostre coste con nove anni di ritardo dalla pubblicazione originale, sia un commentatore del triste mondo italico pre-elettorale del 2018, come mi pare invece stia facendo più di un italico commentatore. L’attualizzazione forzata di un’analisi è un difetto frequente tanto quanto l’antropomorfizzazione degli animali domestici, piccoli imbrogli fatti forse con buona fede autoconsolatoria, ma pur sempre mistificazioni e strumentalizzazioni della realtà.
Mark Fisher non parla del 2018 e nemmeno dell’Italia. Parla dell’Inghilterra di inizi 2000, manca quindi un buon decennio abbondante, una crisi economica tremenda, una globalizzazione in marcia forzata, il mondo digitale che da illusione new age è virato in incubo huxleyano, le viscere d’Europa che hanno ripreso a contorcersi senza nemmeno cercare di dissimulare. Mark Fisher parla da prigioniero di una guerra culturale ed esistenziale che è stata combattuta negli anni ’80 e ’90 ed è stata persa, persa da quelli che si sono riconosciuti nelle posizioni critiche e antagoniste di quei decenni, persa con una resa senza condizioni, senza trattato di pace, con i vincitori che hanno ballato tutta notte sui cadaveri degli sconfitti. Da questa prospettiva parla Mark Fisher.
Noi, oggi, 2018, viviamo gli effetti catastrofici dell’arroganza ottusa dei vincitori, non siamo più gli sconfitti degli anni ’80 e ’90, noi, intendendo noi quelli a profondo disagio esistenziale, noi post-intellettuali, veteroumanisti, disillusi di sinistra, romantici dell’anarchismo scientifico, atei e laici in ritirata, noi quando leggiamo Mark Fisher non possiamo non riconoscere che lui è morto perché non ha saputo abbandonare la condizione di prigioniero di guerra e accettare quella di scarto della modernità. Ci sono forse punti in comune tra le due condizioni, ma non sono la stessa cosa.
Realismo capitalista è stato commentato con molta enfasi e ricchezza di riferimenti da Christian Raimo e io non saprei aggiungere niente di più a quanto da lui scritto, anche se ho qualche timore che lo spettro dell’antropomorfizzazione del cagnolino aleggi pericolosamente tra le sue righe.
Realismo capitalista è un pamphlet, quindi veicola un messaggio politico e su quello batte e ribatte. Il messaggio, tornando col ricordo al 2008, era chiaro per molti e da molti discusso: il neoliberismo, onda lunga del reaganismo e thatcherismo, aveva vinto su tutti i fronti, la socialdemocrazia e il labour avevano venduto l’anima al diavolo, il mondo nato dagli anni ’60 e ’70 era stato smantellato. Da qui l’espressione “realismo capitalista” come sarcastica e paradossale trasmutazione del dogmatismo assolutista sovietico. Il capitalismo di inizi 2000 era assoluto e dogmatico, la retorica dominante aveva cancellato ogni proiezione nel futuro, perché si era giunti alla meta agognata, alla condizione nirvanica assoluta e ideale. Il futuro scompare se si è giunti all’equilibrio perfetto. L’aveva capito per primo John Nash.
In questo contesto si sviluppa l’analisi di Fisher, il quale ha una caratteristica di stile molto particolare. Il suo talento descrittivo e retorico è a tratti sublime, Fisher è in grado di coinvolgere e affascinare in una narrazione intellettuale raffinatissima e palpitante. Riesce a trasmettere passione, spesso in forma di imminente tragedia o di inevitabile disperazione, e a tessere una trama fatta di sfumature e dettagli. Mark Fisher è indiscutibilmente bravissimo. Però dà il meglio sulla distanza breve, nell’arco di poche pagine sprigiona una potenza intellettuale straordinaria, ma non è un saggista. La dimensione del libro, con la sua necessità di struttura, di costruzione progettata per sostenere il lettore che per forza di gravità tende ad afflosciarsi, non è la sua e di questo soffre. Realismo capitalista procede a strappi, tirate sublimi sono seguite da ripetizioni, eccesso di citazioni, evidente fatica nel riempire le pagine, tanto da finire spesso per affidarsi quasi esausto alla esegesi di brani di Žižek.
Nonostante i difetti rimane una lettura interessante per nuove o vecchie riflessioni con Mark Fisher che emerge come intellettuale militante che raccoglie molta simpatia e affetto. Da rifiutare invece la veste di alfiere della critica ai nostri anni della seconda decade, che per essere tale pretende di essere ben radicata nell’ultimo decennio.
Ghosts of my life
Secondo titolo di Mark Fisher del quale voglio dire qualche parola è Ghosts of my life: writings on depression, hauntology and lost futures. È una raccolta di scritti brevi, diversi di essi apparsi sul suo blog k-punk, uscita nel 2013 e che spazia su un arco temporale che va dal 2006 al 2012. Oggetto più ricorrente è la musica alternativa inglese degli anni ’90, post rave e jungle, con influenze dub e punk. Ghosts of my life non è però solo un viaggio nei gusti musicali di Fisher presentati con una capacità evocativa e ricchezza di riferimenti musicali e culturali favolose. La raccolta è molto di più, vuole essere molto di più. Ghosts of my life è un monologo di Fisher sui riferimenti culturali scomparsi, sugli sconfitti della modernità, sulla ‘lenta cancellazione del futuro’ (la raccolta si apre con questo titolo), è un manifesto politico per coloro ai quali non resta che la malinconia del passato e i fantasmi del futuro irrealizzato, è una ricapitolazione e un testamento insieme. La malinconia e la melanconia sono i sentimenti prevalenti, uno intriso di ricordi e immagini, l’altro sciolto negli umori esistenziali, la tinta è quella grigia del cielo plumbeo di mezzogiorno, una disperazione esistenziale striscia tra le pagine, pensieri suicidi lampeggiano come scariche elettriche. L’hauntologia (non saprei offrire una traduzione, to haunt ha qui il significato di opprimere con immagini spettrali) è la costruzione politico-intellettuale scelta da Fisher come linea guida della raccolta. Introdotta da Derrida negli anni ’70 all’interno della sua teoria marxiana, ha alla base l’idea di essere ‘schiacciati da eventi mai realmente avvenuti, dai futuri che non si sono materializzati e permangono in forma di spettri’ (cito una frase di Fisher). L’immagine è evocativa e angosciante.
Il testo nel suo insieme, come e più di Realismo capitalista, procede a scatti, il filo a tratti lugubre dell’hauntologia lega le sezioni e i contributi lungo gli anni orribili di questo ventunesimo secolo. Lunghe digressioni, soprattutto su musicisti e generi musicali, si susseguono in un vortice di erudizione e rimandi, avvitandosi sovente nello specialismo e nella grammatica da iniziati tipica di certa filosofia novecentesca. Rispetto l’accademismo sterile di molti filosofi, Fisher però mantiene una vena drammatica e intimista che impedisce alle distanze tra testo e lettore di allargarsi. Il monologo autobiografico, spesso nei toni della confessione o della seduta psicoanalitica, sono intervallati da analisi articolate che si spingono fino ai confini della prolissità, verso la quale capita non di rado di vedere autori in bilico tra desiderio di esposizione e panico sociale rifugiarsi come alla ricerca di sollievo.
Ghosts of my life contiene anche perle di strepitosa liricità, momenti nei quali Mark Fisher, come già detto in grado di scrivere in maniera sublime, concentra visioni lisergiche e disperate in brani dalla bellezza stilistica mozzafiato. Ad esempio immagini tarkovskyiane e ballardiane della Londra proletaria perduta, rimpiazzata dal mosaico di abominevoli strade commerciali e non-luoghi della modernità banalizzante, ma soprattutto l’inizio, con una sezione intitolata Lost Futures, ricorda la sequenza finale di una serie televisiva inglese chiamata Sapphire and Steel, quando i due protagonisti, due detective, si trovano in un bar e una donna li avverte che stanno per cadere in una trappola. I due si affrettano per fuggire, aprono le tende e fuori non c’è nulla, il vuoto nero iperspazio del nulla, l’assoluto insensato, come se il bar fosse una capsula che fluttua nello spazio (ho citato quasi letteralmente).
The woman rises, saying: ‘This is the trap. This is nowhere, and it’s forever.’ She and her companion then disappear, leaving spectral outlines, then nothingness. Sapphire and Steel panic. They rifle through the few objects in the café, looking for something they can use to escape. There is nothing, and when they pull back the curtains, there is only a black starry void beyond the window. The café, it seems, is some kind of capsule floating in deep space.
Con questa immagine cinematografica probabilmente ben nota al pubblico inglese ma a noi, penso, del tutto sconosciuta, Mark Fisher comincia il monologo, la confessione, il testamento, ed è un inizio grandioso, tragico, melanconico, con pagine intense e commoventi sulla ‘lenta cancellazione del futuro’ operata in questo inizio di secolo, ricordando come fu Franco ‘Bifo’ Berardi a introdurla riferendosi agli anni ’70 e ’80.
It is the contention of this book that 21st-century culture is marked by the same anachronism and inertia which afflicted Sapphire and Steel in their final adventure. But this stasis has been buried, interred behind a superficial frenzy of ‘newness’, of perpetual movement.
Ghosts of my life come detto procede tra vette e valli, in un bipolarismo difficile da sostenere, che affatica, ma anche affascina e conquista. Difficile pensare di avere compreso tutto quello che Mark Fisher ha cercato di dire nel corso degli anni e ancor più il senso ultimo della composizione di queste riflessioni in una forma unitaria. Rimane il senso doloroso di perdita, perdita drammatica di Fisher in primo luogo, ma anche di noi stessi, come tanti Sapphire and Steel isolati nella nostra piccola capsula in apparenza famigliare, in realtà alla deriva in un vuoto indecifrabile e muto.
Non vedrete questo testo pubblicato in italiano, potrei scommetterci. Troppo incentrato sull’Inghilterra, Londra-centrico e ossessionato da generi musicali e autori che ben pochi conoscono, troppo avvitato su se stesso, difficile e straniante. Ma è un grande peccato perché credo che nessun testo come questo, a modo suo meravigliosamente ripiegato su se stesso, rappresenti l’autoritratto di Mark Fisher e quello che ha tentato di lasciare dietro di sé.
Chiudo con un brano da ‘Always Yearning For The Time That Just Eluded Us’ – Introduction to Laura Oldfield Ford’s Savage Messiah (Verso, 2011), primo contributo della terza e ultima sezione, uno dei più belli, per intensità della voce, per forza evocativa delle immagini e per volo vertiginoso delle parole. Un brano drammatico come il singulto rauco di un uomo solo.
Savage Messiah is a gigantic, unfinished collage, which – like the city – is constantly reconfiguring itself. Macro-and micro-narratives proliferate tuberously; spidery slogans recur; figures migrate through various versions of London, sometimes trapped inside the drearily glossy spaces imagined by advertising and regeneration propaganda, sometimes free to drift. She deploys collage in much the same way William Burroughs used it: as a weapon in time-war. The cut-up can dislocate established narratives, break habits, allow new associations to coalesce. In Savage Messiah, the seamless, already-established capitalist reality of London dissolves into a riot of potentials. Savage Messiah is written for those who could not be regenerated, even if they wanted to be. They are the unregenerated, a lost generation, ‘always yearning for the time that just eluded us’: those who were born too late for punk but whose expectations were raised by its incendiary afterglow; those who watched the Miners’ Strike with partisan adolescent eyes but who were too young to really participate in the militancy; those who experienced the future-rush euphoria of rave as their birthright, never dreaming that it could burn out like fried synapses; those, in short, who simply did not find the ‘reality’ imposed by the conquering forces of neoliberalism liveable. It’s adapt or die, and there are many different forms of death available to those who can’t pick up the business buzz or muster the requisite enthusiasm for the creative industries. Six million ways to die, choose one: drugs, depression, destitution. So many forms of catatonic collapse. In earlier times, ‘deviants, psychotics and the mentally collapsed’ inspired militant-poets, situationists, Rave-dreamers. Now they are incarcerated in hospitals, or languishing in the gutter.
No Pedestrian Access To Shopping Centre
Note:
– Per questo ultimo brano non mi sono avventurato in una traduzione, perché non sarei stato in grado di produrne una appena accettabile. Mi scuso con chi per questo non riuscirà a cogliere la potenza delle parole di Fisher. Se un traduttore dall’inglese che leggerà questo mio contributo vorrà offrire una sua versione capace di rendere merito all’originale, sarò felice di inserirla insieme ai doverosi ringraziamenti.
– “Toward a Right-Wing Hauntology: Mark Fisher’s Ghosts of My Life” di Christopher Pankhurst è un commento e una interpretazione originale del concetto di hauntology, certamente personale e discutibile, ma non insensata e soprattutto in grado di cogliere la forza delle parole di Fisher.
– Un’intervista a Fisher su Ghosts of my life in Nero Magazine.