«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
SOTTO IL VULCANO
Malcolm Lowry
Traduzione di Giorgio Monicelli
Feltrinelli 1983
Di Sotto il vulcano, Feltrinelli ha appena fatto uscire una nuova traduzione di Marco Rossari con copertina insolitamente sobria e quasi vintage, richiamo stilistico evidente, così pare a me, alla gloriosa collana di un tempo. Lo prendo come un segno di speranza, la speranza che dopo decenni passati a depauperare un catalogo straordinario, vanto dell’editoria italiana, per invece puntare su libri inutili con copertine tra le più brutte che il mondo abbia mai visto e una catena di simil-autogrill urbani di molte pretese e poca sostanza, la gloriosa Feltrinelli abbia finalmente riflettuto sui propri errori e ripensato alcune sciaguratissime scelte.
Nonostante questo afflato di speranza, io però non ho letto la nuova edizione, bensì la precedente, quella apparsa per la prima volta nel 1961 con la traduzione arcaica e incantevole di Giorgio Monicelli. Mi auguro che Rossari sia riuscito a modernizzarla senza perdere il fascino misterioso che da quella si sprigiona.
Sotto il vulcano è un libro lunghissimo, molto di più di quanto si intuisca dal numero di pagine, e lento, quasi esasperante è la sua lentezza. Vuole essere esasperante, ne sono convinto. Cerca di far desistere il lettore, molti infatti desistono, lo intorpidisce con l’ambiguità e l’inconcludenza, talvolta assume le parvenze dell’immobilità insopportabile. Eppure, Sotto il vulcano è per molti un capolavoro assoluto, per alcuni perfino uno spartiacque, c’è un prima e un dopo la sua lettura. Io sono tra questi, Sotto il vulcano lascia un segno indelebile nella storia delle mie letture, come pochi altri, come quei libri che hanno ridefinito la mia estetica, si sono insinuati nella mia sensibilità e hanno occupato il mio orizzonte con la maestosa imponenza del vulcano Popocatepetl.
Va ricordato anche che la lettura di un’opera come Sotto il vulcano necessariamente si fonde con un tempo di vita, con una disposizione di spirito, con un certo ritmo della respirazione e dei pensieri. Sono testi che pretendono una tale partecipazione fisica ed emotiva da non poter essere inscritti tra parentesi, ma dilagano nella mente, ricadono sulle braccia, si indossano come abiti. Questo rende unica la lettura, come è ben noto a chi vuole vederlo.
Io ho letto Sotto il vulcano con un grave peso sull’anima, un dolore uscito dagli argini, in settimane di silenzio e piccoli gesti, poche pagine per volta, che di più non riuscivo. Pagine che ripetevano dialoghi e scene nella cornice messicana della storia. Indolenza e ineluttabilità si scioglievano, la mia e quella del libro, nulla accadeva se non un lento movimento laterale di deriva che trascinava la storia verso quel vulcano immanente, personaggi perduti nella loro vita priva di sintesi e scopo, ormai incapaci anche di rimpianti, allo stremo in quell’angolo remoto di mondo. Il simbolismo, i richiami metaforici e le analogie che Malcolm Lowry lascia cadere segnano il sentiero della lettura verso una meta non nota ma la cui presenza si fa più palpabile a ogni capitolo. Leggevo la prosa antica di Giorgio Monicelli soffermandomi ogni volta a guardare sorridendo i “non ostante” e gli altri delicati arcaismi, gli inserti spagnoleggianti a riprodurre l’argot del testo originale, i caratteri piccoli e fitti, le pagine di carta spessa che scorrevano con lentezza, spesso ho perso il segno, molte volte addormentandomi tra una riga e l’altra. Leggevo un libro intriso di dolore e di decadenza, un senso di morte appiccicoso come un epilogo annegato nell’alcol e nelle parole inutilmente sincere, inevitabilmente false.
Un lento avanzare nel libro, come lenta è la deriva dei protagonisti nella storia, fino al finale, il lungo, straordinario, folle finale che inizia avvitandosi lentamente per prendere velocità affondando in una spirale infernale di strazio, visioni esistenziali, rincorsa disperata, notte di tempesta e crudeltà. Finale di drammaticità maestosa e fenomenale, un sentiero di dolore e oscurità che si inerpica sulle pendici del vulcano, la meta designata, la meta temuta, la meta inevitabile. Un finale letto precipitandomi, senza fiato né sonno, immerso nelle visioni oscure e magnifiche del testo che si fa primordiale, roboante, colmo della potenza delle forze di natura.
Un libro con un senso di destino.
Ed ecco, era fatta, ora. Il toro era nei guai senza nessuna speranza. Uno, due, tre, quattro lasso, ognuno lanciato con rinnovata, dichiarata e profonda antipatia, lo tenevano legato. Gli spettatori battevano i piedi sulle tribune di legno, applaudivano ritmicamente, ma senza entusiasmo. Sí, la colpí ora l’idea che tutta quella faccenda del toro assomigliava alla vita: la nascita importante, le buone probabilità, il giro dell’arena prima esitante, poi sicuro, poi mezzo disperato, un ostacolo superato – impresa poco apprezzata – infine la noia, la rassegnazione, il collasso; quindi un’altra, più convulsa, rinascita, un nuovo avvio; i cauti tentativi di orientamento in un mondo ora francamente ostile; l’incoraggiamento apparente, ma illusorio, dei giudici, metà dei quali s’erano addormentati; i passi falsi e le deviazioni verso gli inizi della catastrofe, proprio per lo stesso insignificante ostacolo che la prima volta aveva superato con un solo salto, il crollo finale dentro la trappola di nemici che non sapevi mai con certezza se non fossero amici piú maldestri che malintenzionati, la caduta seguita dal disastro, la capitolazione, la disintegrazione…