«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
I DIARI DELLA KOLYMA
Jacek Hugo-Bader
Traduzione di Marco Vanchetti
Keller 2018
Hugo-Bader viene spesso, sempre, paragonato a Kapuściński, maestro del reportage da zone difficili del mondo; il nuovo Kapuściński, si sente dire, e in effetti i punti i comune tra i due non mancano, almeno da una visione d’insieme. Entrambi polacchi ed esploratori di quel mondo per molti versi misterioso che è la Russia, o ex Unione Sovietica come si diceva ai tempi di Imperium di Kapuściński, entrambi protagonisti di reportage avventurosi con loro stessi al centro della narrazione, tanto che i libri si leggono più come romanzi di avventura che come reportage giornalistici, anche, aggiungo io, per una certa tendenza alla narrazione fantasiosa, altro aspetto che mi piace pensare Hugo-Bader condivida con Kapuściński e che nulla toglie alla favolosa abilità descrittiva di entrambi nello svelare mondi irraggiungibili e remotissimi, angoli di terra ferocemente inospitali ed estremi dove mai, in nessun caso, per nessuna circostanza o rovescio della vita, il lettore può immaginare di recarsi, eliminando alla radice anche il minimo sospetto o ipotesi di suggestione turistica, uno dei peggiori mali della società contemporanea e un peccato capitale per un libro di reportage. Dove va Hugo-Bader o dove andava Kapuściński, il turista, anche quello più estremo o idealista, non ci va. Al limite ci va il suicida o il folle, tipologie umane di tutt’altro livello rispetto al turista.
Hugo-Bader però non è un semplice epigone di Kapuściński, un allievo, una copia, un successore. È sporco, è sozzo, è vizioso, è un Kapuściński privato del gusto e dell’eleganza da aristocratico mitteleuropeo colto e sofisticato che intrepido si avventura nei posti più pericolosi con lo spirito del cartografo o dell’antropologo ottocentesco. Hugo-Bader si infila nelle fogne della Russia, si confonde ai derelitti, ai delinquenti, ai tossici e alle puttane, tanto che l’impressione che se ne ricava è che se non fosse stato per la professione di reporter, sarebbe certamente diventato uno di quei derelitti, delinquente e tossico. Infatti il tratto inconfondibile di Hugo-Bader non è tanto la capacità descrittiva, quanto la capacità d’immersione, il fatto non solo di recarsi nei luoghi più remoti della Siberia, ma di farlo in condizioni da disperato, da folle, da miserabile, uscendone vivo. E in questo è grandioso.
Per I diari della Kolyma, Hugo-Bader parte da Magadan per giungere a Jakutsk, dal Mare di Ochotsk, estremo oriente siberiano, ultima terra prima della Kamčatka, addentrandosi verso occidente nella regione dei gulag staliniani più duri, in un territorio che allora come ora è tra i più inospitali, per le condizioni climatiche e sociali brutali e l’isolamento estremo. Segue idealmente le orme di Varlam Šalamov, autore del celebre I racconti di Kolyma sull’esperienza di recluso nei gulag, percorrendo i 2000 chilometri dell’unica strada esistente, la Strada della Kolyma, la strada più disseminata di morti in tutto il mondo.
Lo fa in autostop prendendo passaggi da camionisti che raccontano di aggressioni di orsi affamati di uomini che vagano per la taiga ghiacciata, autisti ubriachi che viaggiano a velocità folli su una strada poggiata sul permafrost; incontra delinquenti locali, boss della malavita, ex-agenti dei servizi segreti, persone che sopravvivono a stento, quelli che non hanno alternativa o non possono lasciare la regione, altri che nella Kolyma ci sono andati o ritornati spontaneamente, una fuga o un ritiro nel luogo più remoto possibile. Una umanità dalla quale estrae personaggi di commedia, teatro russo, tragicomico, ispirati e cialtroni, poeti delle discariche, artisti coi rottami, inventori di invenzioni impossibili, antiche signore in disfacimento, minoranze etniche intossicate, un mondo di folli e di semplici che si sforza di sopravvivere galleggiando su un oceano di vodka, a volte annegandoci dentro, collassando, schiantandosi, perdendo la poca ragione rimasta, scomparendo.
Strepitoso Jacek Hugo-Bander, replica il fenomenale Febbre bianca, forse ancora più disperatamente pazzoide di questo, ma forse solo perché era il primo che leggevo. Insieme sono tra i libri più appassionanti, stupefacenti e deliranti si possano incontrare oggi, non smetterò mai di consigliarli.
Già mentre ero a letto ho cominciato ad avere paura.
La mattina una macchina viene a prendermi in albergo e insieme a quattro uomini mi porta in basso lungo il fiume, oltre la città. Si tratta sempre della Strada della Kolyma, che qui è spesso chiamata Strada di Magadan.
Due di noi sono ubriachi fradici. Nessuno ha mai traversato il fiume in questo modo, e tutti hanno motivi molto, molto più importanti dei miei per farlo. Vasil, di origini jakute, è un cercatore d’oro, dopo sei mesi di lavoro nella taiga torna a casa per l’inverno, a Jakutsk. Ivan Ivanovič va a operarsi al cuore a Novosibirsk, e suo figlio Serëža, di ventitré anni, rasato a zero, non lo vuole lasciare solo. Il geologo Valera va a Mosca al funerale della madre. Io potrei farne a meno.
Del nostro gruppo solo Ivan Ivanovič mantiene la calma. Dice di non aver paura tanto morirà tra non molto lo stesso. I medici hanno già previsto quando. L’operazione dà una minima possibilità di spostare il termine. Però è in pensiero per il figlio, tanto più che nonostante l’ora mattutina il ragazzo sta bevendo di brutto e ogni tot tracanna vino dozzinale da un cartone.
La Lazik ci porta proprio sul fiume e l’autista prende da ciascuno cinquecento rubli (12,50 euro). Vediamo le automobili sull’altra riva, e poi un piccolo guscio di metallo che in mezzo ai lastroni di ghiaccio sta venendo dalla nostra parte.
È una logora vecchia barca con motore Yamaha. Aiutiamo una donna terrorizzata, bianca come un cencio, ad arrampicarsi sulla riva e poi prendiamo posto. Viene fuori che il nostro nocchiere intende traghettarci in una sola mandata e con lui siamo sei uomini di una certa stazza con i bagagli. I fianchi della barca emergono a mala pena dall’acqua.
Ovviamente a bordo della nostra bagnarola non ci sono giubbotti di salvataggio. Ci destreggiamo in mezzo a lastroni di ghiaccio, i più piccoli li prendiamo con gli arpioni. I blocchi sbattono con frastuono sulle fiancate di metallo. Un suono terrificante.
La traversata dura sette minuti. In questo tempo il nostro barcaiolo, che si chiama Nikolaj, racconta che da sei anni, unico in tutta Chandyga, trasporta illegalmente le persone nel periodo in cui la navigazione è chiusa. Lo fa per soldi e perché ha un conto in sospeso col fiume. Gli piace domarlo. Qualche anno fa nell’Aldan è affogato suo fratello. Doveva andare dall’altra parte ma nessuno aveva avuto il coraggio di portarcelo, e allora il ragazzo aveva provato a superare il fiume saltando da un lastrone all’altro.
Note:
– Keller, troppi i refusi, urge una revisione accurata.