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«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

Il controllo della natura – John McPhee

IL CONTROLLO DELLA NATURA
John McPhee
Traduzione di Gabriele Castellari
Adelphi 1995

Saggio in buon stile anglosassone fatto di accurato lavoro di documentazione e buona capacità di intrattenimento e gran profusione di testimonianze e aneddoti.
Questi ingredienti del praticante il mestiere di saggista sono pressoché indispensabili. Senza una ricostruzione completa e dettagliata si scade nel pressapochismo, senza stile brioso e accattivante si piega nel grigio accademismo. Non sono tuttavia sufficienti a produrre un saggio interessante.
Alla riuscita dell’opera è necessario un contenuto che si presti allo scopo di interessare un certo pubblico tanto da convincerlo ad acquistare il libro.
Qui finisce la terra salda sulla quale possiamo sperare di trovare un civile ed educato accordo tra persone ragionevoli e inizia la palude dove al più si trova un accordo tra compagni di zattera, quando sulla zattera si trovi posto per qualcuno oltre noi stessi, caso questo non così frequente.

Al mio gusto, Il controllo della natura è risultato poco incline ad ammiccamenti e molto diligente nella cura messa per presentare tre casi e tre narrazioni di battaglie condotte dagli uomini per il controllo di fenomeni naturali. In più, McPhee si è dimostrato non essere un saltimbanco della cosiddetta non fiction – forse perché trent’anni fa la saggistica divulgativa aveva regole un po’ più rigide in tema di frizzi e lazzi accettabili – mentre l’influenza di una educazione fatta di buone lettere classiche e di narrativa che non deve perdere mai una certa eleganza stilistica opera alla buona riuscita del testo.

Tre sono i casi presentati. Il primo è la lotta per il controllo del corso del Mississippi, abituato dalla notte dei tempi a vagare serpeggiando liberamente nella piana alluvionale e scaricare regolarmente piene di proporzioni ciclopiche. A complicare una situazione già abbastanza complicata, c’è la presenza a poca distanza di un fiume meno noto al grande pubblico, l’Atchafalaya, che solo per le dimensioni enormi del Mississippi viene considerato minore. Questo Atchafalaya, da buon fratello minore, è ancora più selvaggio e imprevedibile del fratello maggiore e quel che è peggio esercita sul Mississippi una pessima influenza, tanto che questi tenta in tutti i modi di aprirsi un varco per tuffarvisi dentro. Le conseguenze di ciò sarebbero apocalittiche per tutto il bacino che attraversa il midwest degli Stati Uniti, New Orleans e altre città della regione ora bagnate dal fiume si ritroverebbero in mezzo ai campi o con un ecosistema sconvolto, altre verrebbero sommerse. Un cataclisma, in sostanza.

Il racconto è la lotta per contenere la furia di questi corsi d’acqua tanto fondamentali per gli Stati Uniti da parte del Corpo del Genio dell’Esercito americano. È una storia epica e avventurosa fatta di grandi slanci e grandi errori, di fallimenti terribili e di successi, di dubbi, di tentativi andati a buon fine un po’ frutto di buoni calcoli e un po’ di buona sorte. È una storia nella quale si intrecciano ingegneri, politici, militari e barcaioli, tutti a galleggiare su quella massa d’acqua sterminata e capricciosa.

 

Per il secondo caso, McPhee si sposta in Islanda, più precisamente sull’isola di Heimaey, la maggiore dell’arcipelago delle Vestmannaeyjar, a non molta distanza da Reykjavik.
Come ben noto, l’Islanda è terra di vulcani imponenti e bizzosi. Ma quando il 23 gennaio del 1973 si aprì una fenditura in un campo di Heimaey e da quella prese a zampillare un fiotto di lava alto centocinquanta metri, fu però chiaro immediatamente a tutti i residenti dell’isola che per loro il problema aveva proporzioni infinitamente maggiori dei soliti vulcani che entravano in attività in Islanda, o “sul continente” come è tipico per degli isolani chiamare il territorio principale.

La lotta contro il fronte lavico alto qualche decina di metri che minacciava di seppellire il centro abitato e il porto di Heimaey – evento questo che avrebbe determinato la scomparsa dell’isola tra i luoghi abitati d’Islanda – è il soggetto della seconda storia raccontata da McPhee. È una storia vibrante e stupefacente. Una lotta tra un piccolo borgo male attrezzato che ricevette aiuti in ritardo e non adeguati dalla capitale e un mostro rovente che avanzava, in più sputando bombe incandescenti che colpivano case e sfioravano le persone e una incessante cenere vetrosa che ricopriva l’isola e le persone. La voce narrante recita la parte di un ipotetico Plinio nordico che assiste agli ultimi giorni di Pompei ricoperta dalla furia del Vesuvio. Il paragone classico ricorre spesso, un po’ per colorare la storia e un po’ perché Heimaey ha rischiato sul serio di finire come Pompei. Anche in questo caso il racconto è dettagliatissimo degli sforzi, i tentativi, prima fallimentari poi di sempre maggior successo per contrastare la colata semplicemente pompando acqua per raffreddare il fronte lavico. È una bella storia, la più appassionante delle tre, a mio giudizio, una battaglia campale risorgimentale con i fronti che si scontrano in un corpo a corpo, attacchi e ritirate, tattiche e strategie, generali, truppe ed eroi. Infine la grande vittoria.

 

Con il terzo e ultimo caso si ritorna negli Stati Uniti, in California, a Los Angeles e riguarda una lotta quanto mai attuale: quella con gli incendi e le inondazioni. La California è da sempre flagellata dagli incendi. È cronaca di poche settimane fa quella del fronte di fuoco che ha martoriato l’entroterra di Los Angeles. La storia che racconta McPhee è proprio questa, degli incendi endemici nei canyon e tra la vegetazione secca delle montagne alle spalle di Los Angeles e il successivo franare delle montagne glabre. Ne racconta i tentativi per arginarli da parte delle autorità della contea, le imponenti frane di rocce e fango che immancabilmente avvengono con le precipitazioni dei mesi successivi agli incendi, i limiti delle opere costruite per contenere lo sgretolarsi delle montagne che precipitano sulle abitazioni, i sotterfugi degli immobiliaristi e il cinismo dei costruttori, ma soprattutto, e questo è particolarmente interessante, racconta lo spirito degli abitanti di quelle alture e quei canyon, tra incoscienza del pericolo incombente e fatalismo da mito della frontiera, amore inscalfibile per quei luoghi remoti e isolati, e un certo non dichiarato panteismo ispirato ai nativi americani che ispira persone altrimenti perfettamente inserite nella vita cittadina losangelina.

Il risultato è una narrazione che si allontana dalla logica razionalità urbanistica o geologica con la quale si dovrebbe analizzare il problema, le cause, le soluzioni praticabili, i costi, la fattibilità e via dicendo. In realtà lo sguardo si sposta, segue quei sognatori irresponsabili che scelgono di vivere sotto una montagna o dentro un canyon che presto o tardi verrà avvolto dal fuoco e farà precipitare un muro di rocce e fango sulle loro case. Ci si lascia infatuare dal richiamo naturalistico, dall’idea che c’è un equilibrio e un senso superiore nello scatenarsi degli eventi naturali. Il fronte del fuoco che devasta le montagne non è più una catastrofe, ma una salvezza, un segno di vitalità di una terra che da milioni di anni accende fuochi, lascia bruciare la vegetazione e poi ricomincia il ciclo vitale.

 

Sono tre belle storie di scienza, tecnica, natura e uomini. Raccontate bene, descritte con estrema ricchezza di dettagli. Sono tre storie emblematiche della lotta degli uomini contro la furia della natura.
Questo se considerate indipendentemente una dall’altra.
In realtà c’è un livello superiore di lettura che McPhee non dichiara, ma lascia intravedere.

Le tre storie non sono scelte a caso, questo è ovvio, ma neppure sono disposte a caso. Sono disposte per raccontare un’ulteriore storia, forse una morale o una infatuazione dell’autore.
È la storia dell’uomo che prima combatte con la forza della sua tecnica e delle sue macchine, delle grandi opere e della tecnologie. Poi è quella dell’uomo che combatte con la forza del cuore e della speranza che lo rende incrollabile. Infine è la storia dell’uomo che invece di lottare e combattere cerca di farsi parte della natura, l’abbraccia e l’accetta, anche quando la furia si scatena, perché parte di un organismo superiore, più saggio, primordiale e onnisciente.
Ingenuo, forse, ma la spiritualità naturalistica ha un fascino ancestrale intramontabile, nonostante tutto.

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Questa voce è stata pubblicata il 1 settembre 2018 da in Adelphi, Autori, Editori, McPhee, John con tag , , , .

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