«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
ESSERE UNA MACCHINA
Mark O’Connell
Traduzione di Gianni Pannofino
Adelphi 2018
Inizialmente avevo deciso di non leggere questo Essere una macchina, perché Adelphi per quanto è sofisticata e quasi sempre consistente nella qualità dei titoli delle sue collane tradizionali, tanto è ondivaga in questa La collana dei casi, nella quale fa confluire saggistica divulgativa spesso americana e non di rado di incerta qualità, soprattutto quando tenta di darsi un tono di modernità tecnologica digitale. Il celebre e caratteristico stile adelphiano della narrativa straniera che così bene la distingue e che ne ha fatto la fortuna, in questi saggi ancora non si vede neanche con il lanternino.
Questo era per me un primo buon motivo per guardare questo titolo un po’ di sbieco. Un secondo buon motivo per tenermi alla larga era l’argomento, ovvero la cosiddetta disciplina o moda o filosofia o religione o scienza o utopia, ancora una connotazione convincente mi pare che manchi, che prende il nome di transumanismo, l’idea che la condizione biologica umana, cioè il corpo umano, vada superata, prima attraverso delle sempre maggiori ibridazioni con estensioni o apparati meccanici o elettronici tanto da rendere l’umano transumano, poi da lì, dalla condizione transumana, si possa fare il salto a una condizione post-umana di solito immaginata come unione tra mente umana resa in forma di software e corpo o corporeità digitale. Qualcosa del genere.
A sentirlo dire in questo modo sembra il delirio di pazzi, e probabilmente proprio di questo per lo più si tratta con il solito contorno di profittatori e affaristi che intravedono l’occasione per prendere all’amo qualche pesce, ma è indubbio che la proto-utopia transumanista (per il momento, benevolmente, la catalogo come proto-utopia) abbia conquistato una posizione di rilevanza nel discorso sul futuro della società e sul destino dell’uomo, rilevanza quasi del tutto dovuta ai discorsi che fanno nella Silicon Valley e tra coloro, abitanti magari di periferie italiane, che alla Silicon Valley guardano come il modello ideale di mondo desiderabile. È un dato però che quanto nasce nella Silicon Valley, nel bene e più spesso nel male, quando raramente si tratta di qualcosa di acuto e quando quasi sempre si tratta di idiozie, intellettualmente parlando, ma con la forza di una montagna di soldi, di potere e di possibilità di fare lucrosi affari alle spalle, sia meglio prenderlo in seria considerazione prima di ritrovarsi spiazzati da conseguenze imprevedibili.
Il terzo motivo di diffidenza era che io per ragioni che ora non sto a spiegare, di discorsi e omelie e prediche e vaneggiamenti sul transumanismo, la singolarità tecnologica nella versione di Google o nella versione di Oxford, la superintelligenza artificiale robotica, i biohacker mezzi cyborg e mezzi strafatti (ma anche gli hacker normali non bio), la criogenesi dei miliardari ossessivi-compulsivi e di tutta quanta l’ideologia ipercapitalista e ultraliberista, messianica ed esoterica, segregazionista e antiintellettuale della Silicon Valley ne ho già letto e sentito a vagonate da lunghissimo tempo e quindi l’idea di leggere le banalità dell’ennesimo invasato pseudogiornalista, pseudointellettuale, pseudoesperto, pseudoqualcosa che o annuncia il prossimo nirvana tecnologico ultraumano o l’arrivo dei cavalieri dell’apocalisse digitale (e tra i due tipi di invasati, sinceramente, la differenza è pochissima) non mi emozionava molto, anzi, mi annoiava mortalmente solo al pensiero.
Questa era la situazione quando invece, casualmente, ho letto un trafiletto scritto da Mark O’Connell, l’autore, che mi ha incuriosito perché, sorprendentemente, aveva un tono insolito, originale, mi pareva piacevole. Ecco perché l’ho letto, nonostante le molte premesse molto negative.
Sul libro, quello che c’è da dire di indispensabile è che non è quello che uno probabilmente si aspetta di leggere. Non è quell’abisso di noia e banalità che uno maldisposto come me temeva, anzi tutt’altro, e non è neppure il racconto dell’entusiasmante cavalcata tecnologica dell’uomo verso il futuro transumano.
Mark O’Connell è invece particolarmente bravo a sparigliare le carte e a descrivere le varie declinazioni della proto-utopia transumanista dal curioso punto di vista dell’intellettuale agnostico che con la sua formazione e cultura proveniente dai filosofi illuministi e dai classici greci si ritrova a cercare di instaurare un dialogo con dei fanatici esaltati suddivisi nei molti rivoli di un culto vagamente definibile e che mescola elementi di paleocristianità millenarista al kitsch da mega-chiese pentecostali del midwest americano alla concezione tecnodeterminista degli ingegneri fondamentalisti della Silicon Valley. O’Connell riesce a essere ironico senza diventare supponente, cerca l’empatia, e sembra trovarla, con persone che non potrebbero essergli più lontane ideologicamente e culturalmente, persone spesso tanto tecnicamente specializzate quanto umanamente fragili e sprovvedute, talvolta diventa sarcastico quando non si trattiene da mettere in ridicolo le farneticazioni di certi santoni transumanisti, non si abbandona alla retorica positivista del progresso tecnologico e neppure cede alla insicurezza dell’inesperto al confronto con gli esperti.
Eppure sarebbe un errore descrivere Essere una macchina come un reportage dalle diverse frontiere della proto-utopia transumanista. Non è un reportage e Mark O’Connell non scrive perché interessato a cosa stiano facendo i transumanisti. Scrive perché l’argomento è una buona opportunità per uno scrittore di saggistica divulgativa, scrive per mestiere, lo dice. Il transumanismo, così come tutte le farneticazioni tecnologiche, vende bene perché sa di moderno, di internet e di ingegneria; perché non è scienza ma pseudoscienza e quindi ha poche pretese in materia di coerenza e rigore intellettuale e infine perché sembra soddisfare l’esigenza di ritrovare uno spessore spirituale che l’aridità della società digitale e l’obsoleta immagine delle religioni tradizionali hanno aperto.
Tra le righe, ma in maniera ben leggibile, Mark O’Connell scrive di sé, è lui stesso il vero protagonista di questo libro, non i personaggi che si avvicendano nelle interviste, nei dialoghi e nei luoghi che visita. È lui stesso idealizzato, ovviamente, che si fa archetipo della persona estranea ai vaneggiamenti transumanistici e alle bizzarrie degli interpreti, ma ancora di più estranea all’immagine del mondo deformata dalle allucinazioni tecnoindustriali e alla modernità per come viene imposta dal capitalismo tecnologico, estranea ai possibili stravolgimenti del futuro che un certo apparato industriale e ideologico vorrebbe provocare senza che tutti gli altri ne sappiano niente. Mark O’Connell vuole rappresentare i tanti Mark O’Connell inconsapevoli ed estranei che vivono in una Dublino qualsiasi, una Milano qualsiasi, una delle periferie globali anziché a Palo Alto o Mountain View, con la loro cultura umanista, novecentesca e occidentale, per i quali ancora il piacere viene da vedere il proprio figlio gattonare e che di fronte a questi cosiddetti transumanisti che parlano di “risolvere il problema della morte” o di “risolvere il problema del cervello” non possono fare altro che compatirli per la condizione psichica deragliata e l’ignoranza abbacinante che riflettono e compatirsi per la propria impotenza di fronte a una degenerazione intellettuale che prende sempre più forza e occupa spazi vitali, come una infestazione, come un parassita.
Per tutto questo, Essere una macchina non è un libro banale ma neppure un libro indispensabile. Il transumanismo di cui parla è per lo più una farneticazione di gruppi di psicotici spesso molto giovani e di gente molto ricca che, come spesso capita alla gente molto ricca, si circonda di una corte di buffoni, fattucchiere, saltimbanchi, consiglieri spirituali, medium e approfittatori. Nel transumanismo, solo per una parte minima, quella rigorosa e di non facile lettura se privi di informazioni e competenze specifiche, si trovano elementi concreti di progresso tecnologico da esaminare.
Il libro è in realtà un termometro dei tempi che viviamo, è il riflesso di un fiume carsico che scorre e sembra ingrossarsi fatto di incertezze e paure del futuro, nuove superstizioni, teorie pseudoscientifiche rivestite di scientificità, bisogno di sacralità che guarda alla tecnologia come unica illusione rimasta.
Aggiungo una considerazione personale su un certo effetto della lettura, o forse è meglio dire di una meta-lettura e un’auto-analisi. Ho già detto che partivo fortemente prevenuto e durante la lettura l’autore mi ha piacevolmente sorpreso per stile e tono. L’autore è molto bravo e il libro scritto bene.
Questo non significa però che nel mio caso la lettura sia stata piacevole. Non lo è stata, anzi. La leggerezza divertita iniziale per il tono ironico usato da Mark O’Connell nel descrivere il proprio straniamento nell’avere a che fare con degli squinternati convinti di teorie farneticanti su mente-software e corpo-hardware, ha via via lasciato il posto a una irrequietezza nel leggere le certezze categoriche espresse dalla processione di pazzi, poi è diventata un peso che dalle pagine mi rotolava addosso, la mia lettura si è fatta sempre più cupa, vischiosa, permeata di un senso di ineluttabilità di fronte alla rappresentazione del crollo morale del mio mondo e del mio tempo. Ho terminato quasi nella disperazione per l’ennesima testimonianza di un mondo che sta lacerandosi, lasciando spazio a progetti folli, devastazione dell’ambiente e del senso civile, un processo che temo sia ormai inarrestabile e fuori controllo. Ripeto spesso che, per quello che siamo diventati e per i discorsi che si fanno, viviamo un’epoca ridicola, forse la più ridicola della storia, eppure non è divertente, è tragico. Non sono gli psicolabili transumanisti a costituire un pericolo, nemmeno la singolarità tecnologica o la superintelligenza dei robot del futuro. Non lo sono più del terrore dell’anno Mille e delle superstizioni millenariste. Il pericolo viene dall’attribuire un senso all’insensatezza, serietà alla ridicolaggine, intelligenza alla stupidità, sapienza all’ignoranza, e tutto questo chiamarlo progresso e innovazione e libertà e convincersi che è il volto del futuro. Questo libro per me è stata una lettura triste e sconsolata.
questa recensione così sentita mi provoca una contraddittoria reazione: desiderio di leggerlo e repulsione, chissà quale vincerà. Certo è che mi ha lasciato un senso si di desolante smarrimento…
“desolante smarrimento” è proprio l’espressione che cercavo e non trovavo. grazie.