«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
L’UNICA STORIA
Julian Barnes
Traduzione di Susanna Basso
Einaudi 2018
Si scrivono storie d’amore, anche storie dell’amore, si scrivono storie che si ripetono, storie di persone comuni, storie con una trama convenzionale, storie scritte senza immaginazione, laddove lo scopo sia creare immedesimazione e trasporto emotivo, per questo la storia deve essere banale, come lo sono le storie reali. L’unica storia è una storia come tante, scritta per immedesimarsi ed emozionarsi, il ricordo di un amore, struggente e pieno di rimpianti, che si interroga, sul tempo, sugli eventi, sulla memoria e su di sé.
Questa volta però la storia come tante, con lo struggimento e l’implacabilità dei ricordi, è scritta da Julian Barnes, tra i migliori scrittori che oggi scrivono, qui con una voce ispirata dagli dei della narrativa. Voglio pensare che Barnes abbia voluto sfidare la sorte, sfidare il muro della banalità e del sentimentalismo, sfidare l’avversario più temibile per uno scrittore come lui, la normalità, l’assenza di eccezionalità che non offre appigli su cui fare leva per sostenere una trama e schierare i personaggi.
In altre parole si potrebbe anche dire che Barnes ha rinunciato alla finzione scenica che fa da sfondo e da rete di salvataggio alla narrazione, scegliendo l’iperrealismo di una descrizione da tavolo anatomico. Ed è da anatomista l’abilità di entrare nei tessuti molli dei ricordi e dei sentimenti per sezionarli con cura chirurgica. Il risultato è una gemma di bravura narrativa che, dalla banalità della storia e del sentimentalismo dell’amore che fu, dalla normalità dell’uomo che cerca di mettere ordine ai propri ricordi per trovare una coerenza che non sia evidentemente illusoria e dall’assenza di eroicità e di epica letteraria, distilla l’unica storia che alla fine ci si può raccontare, quella che non è né vera e né falsa.
Non anticipo nulla della trama, non tanto perché svelare qualche evento rovini la sorpresa o la suspense, ma per non anticipare il senso di lento scivolare dentro al gorgo di osservazioni e ricordi che la voce narrante recita con tono monotono, pacato, di resoconto.
Nonostante durante la lettura si osservino le lievi correzioni stilistiche che si susseguono nel tono di voce del narratore e nonostante sia evidente la strategia di Barnes nel cambiare il tempo e il punto d’osservazione della narrazione, quindi nonostante ci si sia premurati di vestire l’abito del lettore cinico, ci si ritrova senza presa sul piano inclinato che, non la trama, ma noi stessi in quanto persone con un’unica storia da raccontare confessiamo di avere. Non ci immedesimiamo nel personaggio con la sua storia, ci immedesimiamo in noi stessi con la nostra storia, svestiamo i panni teatrali del lettore per rimanere con i nostri vestiti abituali, col nostro odore, con la nostra solitudine, con il nostro struggimento e rimpianti e dolori e ricordi, con l’unica storia che abbiamo, che non è né vera e né falsa.
Davvero bello, con quella voce monotona e il carico opprimente di normalità.
Una pagina del taccuino, ovviamente, recitava: «Meglio avere amato e perduto, che non avere amato affatto». Rimase valida per alcuni anni; poi la depennò. Poi tornò a scriverla, e poi a depennarla. Ora le aveva tutte e due una accanto all’altra, una pulita come fosse vera, l’altra depennata come falsa.