«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
MYSTERIUM INIQUITATIS
Sergio Quinzio
Adelphi 1995
Proseguo la lettura degli aberranti presenti nel catalogo Adelphi, iniziata con …Il monaco nero in grigio dentro Varennes di Georges Dumézil. Gli aberranti sono opere avulse dalla logica e dalla realtà, sono creature aliene rigurgitate da profondità sconosciute, non somigliano a niente, non tracciano percorsi, sono isolati e schivi. Hanno una voce che dopo di loro tacerà per sempre. Li ho scelti proprio per questi loro tratti unici, non per bellezza e grazia, ma come ultimi esemplari di specie estinte. Di tutto questo sia merito ad Adelphi.
Io non sono credente, nemmeno agnostico. Io sono ateo. Credo nella biologia e in Darwin, credo nel caso e nella creazione inconsapevole, nella complessità senza intelligenza. Io credo nell’infinita limitatezza dell’uomo e nella sua solitudine nell’universo e nella storia. Io credo in senso letterale al versetto della Genesi «Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, / finché non ritornerai alla terra, / perché da essa sei stato tratto: / polvere tu sei e in polvere ritornerai!». Credo anche all’inesistenza dell’anima, del peccato e della resurrezione. Dio non è morto, è solo l’immagine distorta dell’Uomo, insieme sono nati, insieme moriranno.
Da ateo concepisco l’esistenza dello spirito umano e la sua condanna o salvezza, l’aspirazione all’immaterialità e a una continuazione oltre il corpo mortale, capisco la fragilità della specie umana come scimmia nuda e debole, e la forza distruttiva illimitata che si sprigiona nel suo cervello.
Da ateo percepisco la necessità dell’esistenza di Dio, tanto indispensabile quanto quella della Conoscenza. Ne comprendo il rifiuto e l’accettazione, il dubbio e la fede.
Da ateo sono costretto a concepire tutto, anche ciò che non esiste, ma che nell’inesistenza prende forma.
Sergio Quinzio era uomo di fede cattolica, invece, ed era anche uomo di profonda saggezza e conoscenza. Uomo che non poteva nascondere i fallimenti della Chiesa Cattolica, le iniquità, le tragedie e l’abiezione di cui si è resa responsabile. Tuttavia era anche uomo capace di riconoscere la propria natura di persona distillandone l’essenza ultima, quella goccia di sostanza vitale nella quale ogni valore e individualità si concentra. E in quel nucleo di propria esistenza, lui vi riconosceva la fede in Cristo e nel Padre.
Mysterium iniquitatis è la testimonianza di un uomo che sa di essere giunto al termine, Quinzio morirà nel 1996, e ha da compiere solo un ultimo sforzo di ricapitolazione.
Vivere e morire sono fatti più veri di qualunque costruzione intellettuale. Il nichilismo, finché è stato una cosa seria che ha davvero impegnato tutto l’uomo, rivelava chiaramente – si pensi alla nietzscheana «morte di Dio» – la sua lontana radice nella fede ebraico-cristiana: non sostenendosi su nulla, se non sull’esperienza, anch’essa cruciale, della mancanza di ogni sostegno. Ma anche il nichilismo, l’ultima cosa seria, è diventato un compiaciuto gioco umanistico, seguendo in questo, tragicamente, la stessa vicenda della fede che, in ultima analisi, l’ha generato. Esso può così convivere, ormai, con la scienza che, pur essendo divenuta consapevole della sua aleatorietà, continua per inerzia a parlare come se sapesse tutto dei miliardi di secoli e di universi. Che l’uomo possa vivere facendo a meno di una certezza vissuta come assoluta – per quanto tragiche siano state o possano essere le conseguenze violente portate da queste certezze – è ancora da dimostrare; anzi intorno a noi vediamo crescere la terribile anomia che tale nuova condizione suscita.
Sono lucide e profonde le parole di Sergio Quinzio. Costringono a riflettere, a rileggerle, a farle lentamente scendere nei tessuti e riempire la volta cranica per poterle osservare e pesare, confutarle anche, oppure trattenerle e farle proprie pur dalla prospettiva apparentemente opposta di ateo.
Ma è solo apparenza questa opposizione radicale di punti di partenza, perché in realtà sono molti i punti in comune, primo fra tutti e forse l’unico vero generatore di senso, questo che Quinzio riassume in modo magistrale in un passaggio di rara potenza.
Certo la cosa più ragionevole e più ovvia da fare, a questo punto, sarebbe di concludere che la fede è puramente illusoria. E se potessi lo farei, ma non posso. Diverse cose me l’impediscono. Una è che da sempre, forse addirittura da prima che uscissi dal ventre materno, ho fatto l’esperienza che «qualcosa ha senso», e questa esperienza, o meglio, certezza, non sono in grado di comprenderla senza riconoscere in essa la certezza di Dio.
La condizione di fedele, così come la condizione di ateo, generano senso in quanto certezze. Questo nodo definisce larga parte della vicenda umana, dai suoi inizi fino a, probabilmente, quella che sarà la sua fine.
In Mysterium iniquitatis, Quinzio prende le mosse da un’antica profezia, quella contenuta negli scritti di Malachia del XII secolo, secondo la quale l’ultimo pontefice si chiamerà Pietro II e precederà la venuta dell’anticristo descritta nell’Apocalisse, seguita dal Giudizio e dalla risurrezione dei morti. Come nota di costume, si può ricordare come su questa profezia la cagnara dei fanatici e dei farneticanti abbia preso nuovo slancio con la compresenza dei due papi negli anni recenti. Poco importa, queste sono frivolezze del tempo ridicolo che viviamo.
Quello che scrive Quinzio è tutt’altro. Nella finzione letteraria, immagina di essere Pietro II, l’ultimo Papa, malinconico e solitario nell’incarnare l’epilogo della storia millenaria, molto umano nell’amarezza di constatare il fallimento della Chiesa su tutti i piani, morale, spirituale, materiale, perfino teologico, quando ormai le apostasie che coltiva al suo interno nascono e si diffondono senza controllo. È allora che decide di redigere due encicliche chiamate: Resurrectio Mortuorum e Mysterium Iniquitatis. Con la prima riflette sul dogma della risurrezione dei corpi ormai stravolto e relativizzato da un clero che nei fatti non crede più alla verità delle Scritture ma le adatta come meglio piace e conviene. È una riflessione sul valore della fede in quanto tale, certezza da non violare per non perdere di senso, di cui conservarne la sacralità per non abbandonare il sacro.
Il popolo e il clero però non lo ascolta, l’enciclica cade nel vuoto dell’indifferenza, nel chiacchiericcio mondano. Decide allora di scrivere la seconda, quella sul “mistero dell’iniquità”, l’iniquità sempre crescente nella storia da che Cristo si è rivelato e che dovrà ancora gonfiarsi orrenda fino all’avvento dell’anticristo, prima della salvezza dell’uomo. L’enciclica si svolge sul tema dell’anticristicità dei comportamenti della Chiesa, della religione che si trasfigura in morale, dell’indulgenza verso i peccati.
Con l’ultima invocazione, l’ultimo Papa sancisce solennemente il dogma del fallimento del cristanesimo nella storia del mondo.
È un libro inclassificabile e memorabile. Una scheggia di selce strappata da mano antica e usata per vergare segni che parlano di vita, di senso, di fallimenti e di fede. Parlare ai pochi che possono comprendere. A suo modo un libro puro nella narrazione, febbrile nella voce e definitivo nel silenzio che lascia dietro di sé.
Esprimi esattamente il mio pensiero quando dici :”Io non sono credente e nemmeno agnostico, sono ateo”. Quinzio mi pare parli ancora di questo fallimento nel suo libro “La sconfitta di dio” sempre di Adelphi, deve essere duro ammetterlo per uno come lui che crede, ma è necessario se non s vuole abbandonare la facoltà di pensare.
http://www.filosofia.rai.it/articoli/sergio-quinzio-la-sconfitta-di-dio/5030/default.aspx
vorrei leggere di più di Quinzio per comprendere meglio, ma di certo il suo pensiero di credente posto di fronte al fallimento è potente e alto, non svilisce mai la sua fede o il senso che da quella ne trae. mi è sembrato un esempio di dignità e di forza.