«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
GLOSSA
Juan José Saer
Traduzione di Gina Maneri
La Nuova Frontiera 2018
Glossa va letto con la mente e il cuore del fedele che vive un’esperienza religiosa di comunione con il divino. Concluderlo richiede un atto di fede, di questo aspetto della lettura non se ne parla mai. Quale manuale di marketing o recensione o presentazione vi dirà che l’opera monumentale del divino scrittore pretende un atto di fede per non abbandonarla stremati? Nessuno, perché fingono e imbrogliano.
Glossa è l’opera più maestosa di un dio della scrittura come è Juan José Saer e per questo imprescindibile per una certa sottospecie di lettori, i lettori-marsupiali io li definirei (che niente hanno a che fare con la detestabile categoria da supermercato inventata dagli editori dei cosiddetti lettori forti), quelli incomprensibili, cresciuti isolati e destinati alla scomparsa.
È un’opera anomala e aberrante, nel significato etimologico arcaico del verbo aberrare di andar vagando senza saper dove, che uso io da che ho comprato gli aberranti di Adelphi, che racchiude strati di senso incuneati uno nell’altro e schiacciati come da una compressione tettonica che ne disgrega le molecole e ne muta la natura. Come carbone o petrolio, prodotti fossili di materiale organico sprofondato nelle viscere della terra da tempi immemori, così la passeggiata dei due protagonisti di Glossa diventa un pozzo dal quale pensieri, ricordi e parole fossili riemergono a frammenti, privi della trama originale degli eventi e delle storie che un tempo narrarono, sbriciolati uno sull’altro, incomunicabili per via orale, vagamente intuibili nel buio delle singole individualità.
Gli dei non sono sempre creature buone e gentili, non sono benefattori o mecenati. Gli dei sono spesso creature irose e violente, il dio che invocate distribuisce orrori e dolori, morte, guerre, malattie e sofferenza, anche questo è opera di dio, infine promette un’apocalisse prima della salvezza finale. Ogni religione ha compreso questa dualità del divino. Dove non esiste, non è religione, ma pratica di benessere. L’eco di Sergio Quinzio continua a rimbalzare e a guardare bene si ascolta anche nelle righe di Saer.
Il Saer di Glossa pretende un atto di fede e animo disposto all’esperienza religiosa perché è un dio irato e penitenziale quello che parla dalle pagine del libro, voi non siete suoi complici o tanto meno suoi pari, voi siete coloro che devono soffrire per nutrirsi alla fonte della vita, per sentire scrosciare le acque irrequiete che chiamiamo essere vivi. Penerete e arrancherete per oltre duecento pagine di frammenti di ricordi e pensieri incastrati uno sull’altro, uno nell’altro, durante un atto di suprema banalità come una noiosa passeggiata lungo una strada cittadina tra due persone di non salda conoscenza e difficile comprensione reciproca che conversano di fatti senza importanza per nessuno dei due. Certo, vi sforzerete di riconoscere la sublime abilità del creatore (il creatore è ovviamente un creatore onettiano) nel cesellare il caos dei ricordi e della labile coscienza umana, vi accorgerete della mano saldissima che non cede mai al lirismo o alla melodia ma rimane implacabilmente ferma sul registro cacofonico, vi piegherete davanti all’evidenza che tutto quanto di insopportabile state sperimentando è voluto dal creatore fin dalla prima parola del testo, “È”. Anche la sofferenza della traduttrice costretta ad assecondare il volere del creatore vi verrà trasmessa, come se Saer avesse immaginato tutto, in un piano superiore di comprensione a chiunque inaccessibile.
Pochi leggeranno questo libro che costringe ad andar vagando senza saper dove, in lande inospitali della lettura, su sentieri incomprensibili che non si sa dove conducono.
Ma proprio al termine, quando ogni speranza è persa, Saer concede un finale memorabile, una luce bianca abbagliante, improvvisa, violenta, un’esperienza estatica di immersione in una pozza d’acqua termale in mezzo a una tundra ghiacciata, che colpisce come una rivelazione. Ancora, richiede fede, pretende devozione il ricevere la luce.
Un libro da un tempo che ora sembra antico, da una terra che appare dissolta nell’oceano, ma proprio per questo preziosissimo. Onore e merito a La Nuova Frontiera per tutto questo.
[…] intuisce di quanto smarrimento, terrore e confusione hanno ancora bisogno le specie perdute per erigere, nella casa della coincidenza, che potrebbe anche essere un altro nome, no?, il santuario, superfluo in più di un senso, dei propri, come sembra che li chiamino, dèi.
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Anche a me è piaciuto molto, grande soddisfazione, fra i pochissimi di quest’anno. Non conoscevo l’autore, c’è altro in giro?
certo, guarda nel catalogo de La Nuova Frontiera, ha ripubblicato titoli già apparsi parecchi anni fa e anche inediti.