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«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

Il dono di saper vivere – Tommaso Pincio

IL DONO DI SAPER VIVERE
Tommaso Pincio
Einaudi 2018

Pincio lo leggo dai tempi di Hotel a zero stelle e sebbene quella vetta di ispirazione non mi pare l’abbia replicata, conserva una capacità di fare conversazione attraverso le pagine che lo rende comunque piacevole. Questa è anche la mia sintesi de Il dono di saper vivere, un piacevole monologo in forma colloquiale che l’autore produce per dare forma al silenzio, il vero protagonista di queste pagine.

Così come lo spazio vuoto può acquistare una forma solo attraverso i contorni degli spazi pieni, allo stesso modo al silenzio è possibile dare forma solo attraverso i contorni del tempo immerso nel rumore. In alternativa, se si hanno presunzioni incontrollate, occorre scontrarsi con quella creatura mostruosa che è il concetto di infinito e il risultato è sempre una sconfitta indecorosa.
Questa è storia nota, ripetuta da sempre in ogni combinazione possibile.

Pincio ne dà una sua interpretazione con la storia-non-storia della prima parte del libro, una commedia in forma narrativa con un protagonista travestito da alter-ego dell’autore che stancamente perde consistenza in una metaforica pseudogalleria d’arte, in realtà porta d’ingresso e piano inclinato per scivolare nella nuova dimensione spazio-temporale della seconda parte del libro: la biografia-non-biografia del Caravaggio con Pincio in prima persona come voce narrante. Dalla pseudogalleria alla pseudobiografia, il mondo dalle forme vaghe contenuto ne Il dono di saper vivere si rivolta sul perno fisso della geografia urbana di Roma, grande contenitore di infinite cornici narrative per ogni gusto e garbo, così tante e tali da insieme definire il grande anfiteatro che contiene e dà forma ai silenzi e, tra questi, al silenzio indotto dall’opera d’arte.

Già nel 1936 un pensatore tedesco di origini ebraiche segnalava come i nuovi e perfetti mezzi di riproduzione tecnica – fotografia e cinema – privassero le opere d’arte dell’«aura», come la chiamava lui, la cui precisa definizione è «il manifestarsi di una lontananza, per quanto vicina essa sia». Detta in termini più prosaici, l’aura è qualcosa che ci sembra di percepire quando ci troviamo al cospetto dell’arte. L’opera è lì, magari soltanto a qualche passo da noi, eppure è come avvolta da un alone che la rende inavvicinabile. Walter Benjamin parlava di arte perché allora l’arte era ancora la culla ideale della rappresentazione, ma chissà, oggi forse parlerebbe più semplicemente di immagine e di silenzio anziché di aura.
La crepa originaria risale tuttavia a tempi remoti. L’uomo che per primo sottrasse al silenzio la pittura fu, manco a dirlo, Caravaggio.

È qui che Pincio segna con maggiore nettezza la forma del suo silenzio, dandogli il profilo convenzionale del Caravaggio impresso sulle banconote da centomila lire, mentre in precedenza era andato solo tratteggiandone i contorni con l’immagine sfumata dai luoghi che tramandano la storia del pittore-metafora.

Giunti a questo punto, dopo questo gran parlare di silenzio, ci si potrebbe spazientire e quindi domandare che razza di libro sia questo in definitiva: Un libro sul Caravaggio? O forse un libro sull’interpretazione di Pincio del Caravaggio? O magari un libro sull’arte attraverso il personaggio del Caravaggio? O solo un sentire artistico dell’autore del testo? O niente di tutto questo? Ma allora cosa?

Diciamo che sia un libro sul Caravaggio, o per meglio dire, un libro sui pensieri che vengono a Pincio quando pensa al Caravaggio, un po’ storie romanzate, da buon narratore, un po’ riflessioni sull’arte, per la parte del pittore. Che c’entra allora Antoine Roquentin, personaggio de La nausea, di Sartre?

Roquentin c’entra senz’altro visto che taglia trasversalmente l’intero libro, comparendo dietro molti angoli, spuntando improvviso tra le righe. Roquentin è un altro presunto alter-ego che calca la scena di questo libro nel quale si muovono flemmatici gli alter-ego che presumono di essere tali. È un alter-ego di peso, tanto quanto gli altri pseudoPincio (Pincio stesso è un alter-ego), forse anche più ingombrante e definitorio degli altri, per quanto invece cerchi di nascondersi.

Adesso, quando dico «io», mi sembra una cosa vuota. Non arrivo più a sentir me stesso troppo bene, tanto mi sento dimenticato. Tutto quanto resta di reale in me è dell’esistenza che si sente di esistere. Sbadiglio pian piano, lungamente. Nessuno. Antonio Roquentin non esiste per nessuno. Mi diverte. E che cos’è quest’Antonio Roquentin? Qualcosa di astratto. Una pallida, piccola rimembranza di me vacilla nella mia coscienza. Antonio Roquentin… e d’un tratto l’Io impallidisce, impallidisce, e, ecco, si spegne.

(da La nausea, Jean-Paul Sartre, trad. Bruno Fonzi, Einaudi 1990.)

Antoine Roquentin è la cornice definitiva che dà forma al silenzio evocato da Tommaso Pincio, più della letteratura, più della storia, dell’arte e del Caravaggio, Roquentin incarna il vuoto e il silenzio, l’assenza di forma, l’assenza di spazio e l’assenza di tempo. Roquentin è l’alter-ego che fallisce nell’intento di scrivere la storia del personaggio storico, il suo libro si dissolve in nulla, egli stesso si dissolve nella nausea che incarna l’esistenza, l’individuo senza dimensione sociale, cosciente della coscienza, cosciente del vuoto, cosciente della natura di assenza, che non s’interroga mai sul senso, solo sull’esistenza.

Il dono di saper vivere è un titolo beffardo, è il dono che manca a tutti gli alter-ego che attraversano questo libro e nessuno di loro s’illude di poterlo un giorno ottenere.
Bravo Tommaso Pincio.

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Questa voce è stata pubblicata il 29 dicembre 2018 da in Autori, Editori, Einaudi, Pincio, Tommaso con tag , , , .

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