«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
I FUCILI
William T. Vollmann
Traduzione di Cristiana Mennella
Minimum Fax 2018
È un libro lungo, I fucili, sono quasi 500 pagine, al confine con la categoria dei tomi, quelli oltre le 500 pagine, una latitudine già estrema, dove cambia il panorama circostante, finisce la taiga e inizia la tundra, i boschi di conifere si diradano fino a scomparire, rimangono sassi, rocce, muschi, licheni, vegetazione bassa e coriacea, gli spazi improvvisamente si aprono e diventano sconfinati, si leva su tutto il silenzio artico a coprire la voce di ogni pensiero.
I fucili è in realtà un libro ancora più lungo delle quasi 500 pagine, non so dire quante pagine sia, ho provato a tenere il conto mentre lo leggevo ma poi l’ho perso, di certo sono molte di più di quelle che appaiono. Se mi costringete a dire dei numeri direi forse 700, ma potrebbero essere anche 1000, non lo so, davvero ho perso il conto, non dico per dire.
Viene dopo un altro libro di Vollmann, La camicia di ghiaccio, un altro tomo, che pubblicò Alet nel 2007 e che Minimum Fax ripubblicherà in futuro, così scrive. La camicia di ghiaccio è il primo dei Sette Sogni di Vollmann, seguito da Venga il tuo regno, ancora pubblicato da Alet, nel 2011. Poi basta. La serie di sogni sui miti fondatori del mondo del grande freddo, del nord più nord del mondo, del nord più nord d’America, delle terre della grande desolazione e della grande solitudine, si è interrotta al secondo passo, perlomeno nelle edizioni italiane. Con I fucili si salta al sesto sogno, non so perché proprio al sesto, una decisione editoriale, forse quelli di Minimum Fax hanno pensato che fosse meglio così. Non so, non ho commenti da fare in proposito, in questo caso la scelta mi lascia indifferente. Parlane tu se vuoi, io non so.
Questa mia sensazione di indifferenza dipende anche dal fatto che non immagino I fucili come un pezzo di un sogno, Vollmann infatti usa il plurale, non riesco a immaginare di mettere insieme una sequenza, dei collegamenti, ricostruire una visione con un ordine. Mi chiedo: si fanno sogni a puntate? In quel caso, sono sogni diversi o è lo stesso che riprende? Tendo a credere che sia lo stesso che riprende, non sogni diversi. Ogni sogno è una definizione ed è sufficiente a se stesso. Infatti io penso proprio che I fucili sia un libro sufficiente a se stesso.
Ed è lungo, ancora più lungo perché si cancellano i confini, come succede sempre nelle regioni artiche, ogni traccia presto scompare sotto la neve o nel fango o sommersa da un acquitrino, ogni linea, ogni separazione non resiste al gelo, si spacca in tanti frantumi, poche cose resistono e praticamente tutte nascono e vivono solo a quelle latitudini.
Subito non l’avevo capito, infatti mi guardavo intorno alla ricerca di riferimenti, un palo, un segno, un nome, cercavo di triangolare per non perdere l’orientamento ma lo perdevo di continuo, come il numero di pagine, aumentava, diminuiva, finché ho smesso di contare.
Perdevo l’orientamento entrando e uscendo dal sogno di Vollmann per tornare alle pagine, entravo e uscivo dalla narrazione storica della spedizione della Erebus e della Terror (per chi ha visto la serie tv, proprio quelle due, ma descritte con la voce di Vollmann, il che cambia parecchie cose), vagavo tra la realtà del libro e la sua irrealtà. Sono parecchi i confini che si pestano inconsapevolmente perché finiti nascosti sotto la neve. Poi ho capito che non dovevo preoccuparmi dell’orientamento, dei confini e della direzione, perché lassù non puoi pretendere di ragionare come si fa a latitudini più confortevoli, cambia quello che è ragione e quello che non lo è. Intanto devi pensare a sopravvivere e già solo questa necessità ti porta via tutte le energie tranne un piccolo fondo residuo con il quale devi fare tutti i ragionamenti che riesci. Sprecare energie per tenere traccia delle pagine, per segnare ogni passaggio di confine tra reale, irreale, sogno, storia, personaggi, autore e spettri sono attività che ti lasciano esausto velocemente e incapace di approvvigionarti del sostentamento minimo. Quindi non devi farlo se vuoi farcela.
Poi c’è la paura, che è costante, sta nel respiro, uno sbaglio, un imprevisto, una sciocchezza e l’Artico ti serra gli artigli alla gola e ti sbriciola. Quindi devi imparare a convivere con la paura, fartela non proprio amica, ma almeno accettarla come coinquilina, qualche volta puoi anche cercarla, sfidarla per metterti alla prova, per una tua necessità, per un’attrazione che quella produce su di te. Di questo è Vollmann in prima persona che racconta alla fine del libro, dice insomma che I fucili lui l’ha scritto con la paura che gli unghiava le ossa. La paura, a differenza dei film e della tv che devono sempre (quasi sempre, tranne nelle opere dei Maestri) immaginare un’origine della paura, un soggetto che la produce, un mistero, un’entità generatrice di paura, ne I fucili e penso in generale nella tundra, la paura non ha un’origine o un soggetto. La paura non è quella dell’orso sbranatore o delle luci dell’aurora boreale e neanche delle voci degli spettri che soffiano nella bufera. Questi non sono che piccoli espedienti della paura artica. La paura artica è quella del vuoto, del niente, dell’informe, del silenzio assoluto, della solitudine estrema, la paura non ha forma, né colore né voce, è parte essenziale del paesaggio, della terra, della neve, del vento.
Vollmann è di tutto questo che ha scritto. Non è facile scriverne e non lo è leggerne, però il risultato è un libro magnifico, un altro magnifico libro sul grande freddo, sulle latitudini estreme, del mondo, della ragione, dei pensieri.
Gli scogli di fango alti fino alla cintola sulla riva erano congelati, e le grigie concrezioni di conchiglie fossili erano velate di gelo. I massi erano bianchi e grigi di ghiaccio Dentro la canna del suo fucile si formò la brina. Il ghiaccio cominciò a ispessirsi, e il sasso lanciato dal signor Gore spezzò una crosta vera e propria, e non disegnò onde ma anelli di ghiaccio. Il ghiaccio formava una piattaforma che si stendeva da riva per cinque o sei metri, abbastanza solida per essere percorsa. Il ghiaccio aumentava ancora. I massi erano imperlati di cristalli grossi come chicchi d’uva. Lastre di roccia giacevano congelate come pesci morti. Al largo crescevano cespugli inargentati. Poco più a ovest, sulla riva verso il mare aperto, si era formata un’epidermide scura. Che si gonfiava un po’ alla volta. Fori ovali si schiudevano sulla sua superficie, li vedea muoversi. Dal costante spostamento a ovest dei buchi capì che la marea stava scendendo.