«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
LANCIATO DAL PENSIERO – Saggi e traduzioni dal sanscrito
René Daumal
Traduzioni di Svevo D’Onofrio, Alessandro Grossato e Claudio Rugafiori
A cura di Claudio Rugafiori e Lorenzo Simini
Adelphi 2019
Un libro è anche una forma puramente soggetta all’osservazione estetica. In qualche caso lo è in maniera predominante. Ovvero la forma travalica largamente il contenuto, come per taluni fenomeni naturali, la cui osservazione, in termini di forme, suoni o colori, pone in secondo piano gl effetti, a volte anche catastrofici, del fenomeno. Così vale per certi libri. Ovviamente non tutti saranno d’accordo, come non tutti osservano allo stesso modo un fiume che straripa o una foresta che brucia.
Questo è il caso, per me, di questo Lanciato dal pensiero, appena pubblicato e che raccoglie parte delle traduzioni dal sanscrito di René Daumal, il quale non soltanto scrisse Il Monte Analogo e altri test letterari, ma si dedicò per gran parte della sua breve vita allo studio del sanscrito e dei testi vedici. Qui sono alcuni scritti sull’India e traduzioni d brani di varia lunghezza, spesso si ripetono, i mantra. le scene, le storie. La ripetizione non è quasi mai un fatto banale. Di questo è bene tenerne conto.
Come lo stato interiore dell’uomo si esprime con atteggiamenti, così la poesia ha i suoi «andamenti» (rīti), strettamente legati alle «virtù». A ciascuno corrisponde l’uso di certe sonorità e di certi svolgimenti sintattici. C’è un «andamento» agevole, dolce, in cui il senso della frase si sviluppa gradualmente dalla prima parola all’ultima. L’«andamento» opposto, esaltante, tiene l’ascoltatore in sospeso fino agli ultimi termini della frase, che l’illuminano in maniera esplosiva. E ci sono gli «andamenti» intermedi. Ognuno corrisponde a un atteggiamento profondo del poeta, che egli vuole trasmettere all’ascoltatore.
Leggendo passi di questo tipo, sono due i pensieri che nascono. Uno è il pensiero che raccoglie la dolcezza delle parole e il suono cantilenato dei periodi. È una nenia che placa le emozioni, le discioglie in profumi delicati. Il secondo pensiero è solo fatto di occhi che scrutano con freddezza le parole, le scandiscono e le consegnano alle orecchie che le ascoltano, sezionandole in sillabe, in vocali, consonanti, sintassi, semantica, costruzione letterarie, significati. Questo pensiero, rapace, ferino, legge e sogghigna per la banalità dei pensieri espressi, per la semplicità elementare del simbolismo e per la geometrica rappresentazione, buona solo per menti semplici che possono comporre forme elementari, triangoli, cerchi, quadrati, poco altro.
Per questo dico che il libro ha una dimensione estetica fortemente indipendente dal contenuto. Se si osserva il contenuto, è il pensiero occhiuto e rapace a prendere il sopravvento e allora poco rimane dopo averlo dato in pasto all’analisi storica, alla filologia, all’analisi dei testi. Sono per lo più invocazioni rituali, allegorie e storie che la tradizione indù consegnò alla immutabile trascrittura in sanscrito per preservarle dalle contaminazioni che stavano facendosi spazio. Il valore del lavoro di Daumal, all’occhio del non specialista, sfugge.
Mentre invece, isolandosi in una dimensione puramente estetica, come tutte le litanie, le invocazioni rituali, le allegorie e le storie che formano il substrato della religiosità popolare, allora la trascrizione permette di cogliere una forma, delle dimensioni, dei grumi di colore che si muovono lentamente, delle sonorità che si ripetono, martellano, inducono stati di alterazione, parole che compongono immagini ipnotizzanti che vogliono turbare e insinuarsi tra le maglie dell’intelletto e scardinarlo, disarticolarne la logica, smembrarne il pensiero razionale per avvelenare tutto con il dolce sapore di fiori, di natura e di delicate illusioni.
Colui che si siede e dice: «Le parole sono il Sacro», costui, fintantoché resta nel dominio delle parole, lì fa tutto quello che gli piace.
«C’è qualcosa, Signore, di più reale delle parole?»
«Sì, certo, c’è qualcosa di più reale delle parole».
«Allora ditemelo, Signore».