«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
QUI NON PUÒ TROVARMI NESSUNO
Milena Jesenská
Traduzione di Donatella Frediani
Giometti & Antonello 2018
Il libro è bello, anche l’edizione lo è, e la figura di Milena Jesenská ne emerge come di persona che ha vissuto una stagione storica feroce, ha incrociato più volte la propria esistenza con quella di Kafka, è stata immersa in una cultura e un vivere le proprie radici che il nazismo ha spazzato via.
Da un certo punto di vista, quindi, si potrebbe dire che Milena Jesenská rispecchia una certa figura letteraria e culturale del periodo ’20-’40 già spesso incontrata, proposta ripetutamente dalla letteratura e dalla storiografia post-bellica e di sicura presa emotiva sul lettore di vedute civili e sensibilità educata. Una figura in definitiva romantica, agli occhi moderni, tragica e romantica, di donna intraprendente, intellettualmente libera e profonda, ma allo stesso tempo emotivamente fragile, preda di passioni che la porteranno alla rovina, eppure capace di rialzarsi, fino all’ultima, definitiva tragedia.
Non sono certo che questo sia il modo più onesto per restituire la memoria di Milena Jesenská. Sono portato anzi a rifiutare questa visione sentimentalistica di donna portata al martirio della quale si vuole rievocare la vita, come fosse una sorta di santa laica, trasformandola in eroina di un tempo che vorremmo ormai dimenticato.
Quello che io ho visto in questo bellissimo libro, e lo ripeto, bellissimo libro, non è la rievocazione di una santa e neppure di un’eroina o di una figura da canonizzare, farne una statua da esporre a futura memoria, a monito o modello per non si sa bene chi e quando e come. Io ho visto una donna, animata da un’energia interiore e passione per il suo tempo, che ha vissuto con intensità, spesso confusamente cercando qualcosa di indefinito, agitandosi tra desiderio di mostrarsi agli altri con la forza che sentiva di possedere e rimuginamenti interiori generati da una acuta sensibilità che le mostrava la deriva che stava trascinando la sua epoca e le persone, lei compresa. Quello che io ho visto è una persona che ha riempito il suo tempo e dal suo tempo è stata infine distrutta.
La selezione degli articoli firmati da Milena Jesenská presentati in questa edizione traccia in maniera forse fin troppo netta lo stacco tra due periodi della sua vita. Il primo è il periodo viennese negli anni ’20, precedente l’addensarsi delle nubi fosche del nazismo e l’attività politica, nel quale la Jesenská cerca un suo posto al mondo e diventa una voce che descrive con leggerezza, ma in modo acuto e talvolta profondo, la società alla quale vuole appartenere, quella colta, intellettuale, moderna ed elegante dell’impero al tramonto. La sua è una sensibilità capace di soffermarsi sui dettagli e riflettere sui comportamenti, le mode, certe fissazioni che prendono piede. Sono pezzi leggeri per soggetto, ma densi di sfumature e dettagli; pezzi che rendono Milena Jesenská una giornalista di successo, tanto da entusiasmare Kafka, con il quale inizierà un rapporto in parte ambiguo, ma anche di rara intimità.
Il secondo periodo è quello degli anni ’30, gli scritti sono politici, Milena Jesenská è a Praga, la Cecoslovacchia è dilaniata dall’interno dall’ascesa del partito nazista dei Sudeti, le forze socialiste, comuniste e liberali sono frammentate. Lei scrive con lo stile del reportage, va nei luoghi, riporta dialoghi con le persone, descrive in presa diretta la disgregazione sociale, l’impoverimento e l’odio che cresce. Si assume l’onere di descrivere come un popolo e una nazione soccombe all’oppressione, per sfinimento, per le lacerazioni interne, per il rancore tra fratelli, tra genitori e figli, come un morbo che imputridisce ogni relazione sociale, gli scolari diventano delatori a danno delle proprie famiglie, gli adolescenti i carnefici dei propri genitori, i mariti delle proprie mogli. Non c’è niente di eroico nei suoi resoconti, nemmeno in senso tragico. L’immagine più drammatica è l’ingresso in Praga dell’esercito tedesco, nel silenzio dei residenti, in un’atmosfera di cupezza pesante, quasi che ogni capacità di reazione sia venuta a mancare, non per ignavia o paura, ma per stanchezza, per rassegnazione, perché la resistenza è stata sconfitta nelle famiglie, nei rapporti umani.
I pezzi sono drammatici eppure asciutti, lei si pone come osservatore che sa di essere parte in causa e senza via d’uscita, racconta, descrive con lucidità la macchina nazista disumanizzante, l’ipocrisia miserabile delle forze d’opposizione. Questi pezzi giornalistici raccontano il volto pubblico di Milena Jesenská, quello che cercò di essere nel suo tempo e mondo.
Poi c’è una Milena Jesenská privata, interiore, la donna, l’individuo, la moglie, l’amante, quella del rimuginare e della sensibilità dolorosa. Quella non la conosciamo, come sempre accade, ma l’ultima parte del libro lascia intravedere qualcosa con una bella nota biografica e alcune lettere che scrisse a Max Brod riguardanti il rapporto con Kafka.
È in quelle pagine che si può cercare di immaginare Milena Jesenská fuori dallo stereotipo letterario, nella sua forma non canonica, la Milena Jesenská che non c’è nei pezzi giornalistici, quella in transizione tra una vicenda e l’altra dell’esistenza, la Milena Jesenská che ha vissuto negli spazi vuoti, nelle pagine che non sono mai state scritte, nei giorni di silenzio, ignorati dalla letteratura. Chi è stata Milena Jesenská tra i due periodi, quello viennese e quello praghese, che la selezione dei pezzi giornalistici non racconta?
L’ultima parte è il grande contributo di questa edizione di Giometti & Antonello, quello che sarebbe stato facile trascurare, una breve nota biografica sarebbe bastata, tanto per dire è stata qua, ha sposato questo, poi è andata là, ha sposato un altro. Magari una postfazione erudita di qualche storico. Invece questa volta c’è qualcosa di diverso, ci sono brevi flashback, dei fermo immagine che catturano una forma, un’espressione, un dolore. In modo certamente molto parziale però vediamo immagini di Milena Jesenská tra i due capitoli del libro, tra le due epoche storiche, vediamo Milena Jesenská immiserita, nello spirito e nelle sostanze, fare la portabagagli alla stazione di Vienna e contestualmente iniziare la traduzione dal tedesco al ceco di un giovane e bizzarro scrittore di nome Franz Kafka; vediamo la donna, rientrata a Praga e lasciato il primo marito, sposato il secondo, madre sofferente dopo il parto difficile, i dolori a una gamba che la renderanno dipendente dalla morfina.
Ritorna a Praga, ma non è che l’ombra di se stessa: appesantita, claudicante, morfinomane, gonfia. Il matrimonio non reggerà a questa prova. Milena perde il posto al «Národní Listy» e scompare dalla cerchia di amici e conoscenti di cui era stata fino a due anni prima la brillante animatrice. Tenta una cura disintossicante, è afflitta da gravi difficoltà economiche e scrive articoli per vari giornali, fra i quali il «Lidové Noviny» che le affida una rubrica di puericultura.
È in questi frammenti di vita che sta la cesura tra i due capitoli, in quel vuoto, in quel silenzio, in quella frattura così innaturale è collocata la vita di Milena Jesenská, la donna, la madre, la persona, nel suo tempo, nella sua epoca. Non c’è eroismo, né retorica, devozione o martirio che possa rendere conto e spiegare la vita di una persona e le sue parole quanto le vicissitudini, i dolori, i giorni e gli anni ai quali è sopravvissuta, seppur gonfia, appesantita, claudicante, morfinomane, impoverita, ma nonostante tutto viva.
C’è spesso un silenzio in grado di descrivere una vita e un’epoca più di molti discorsi. Purtroppo il silenzio, se non in rari casi, non si svela. Questo libro è uno di quei rari casi.