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«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

I fantasmi di Darwin – Ariel Dorfman

I FANTASMI DI DARWIN
Ariel Dorfman
Traduzione di Fabio Cremonesi e Micaela Uzzitelli
Clichy 2019

È ben scritto. Ordinatamente. La storia è ben pensata. Ordinatamente. Ha fatto un buon lavoro di documentazione. Ordinatamente. Ha una morale. Di facile condivisione.
L’autore era cileno, ma ormai è americano, un professore universitario di letteratura, per di più, ma anche editorialista di importanti testate, e perfino attivista per i diritti umani.

Tutto innegabilmente positivo. Tutto innegabilmente perfetto. Il sogno della catena di montaggio dell’industria editoriale americana che sforna a getto continuo autori e autrici inscatolate per la grande distribuzione e qualche confezione per clienti più esigenti, spesso gente fissata con la salute e i principi. Questo I fantasmi di Darwin è una di queste produzioni industriali ma di qualità, non è la paccottiglia dei libercoli per provinciali globali, ma neppure ha il sapore e la forma dell’autentico gesto letterario.

Ovviamente esiste anche una spiegazione alternativa, anzi diciamo meglio, una interpretazione concettuale divergente fondata sul postulato che io sia soltanto un rompipalle che appena sente odore di plastica americana prende a dimenarsi nevroticamente. Non nego che sia un’ipotesi da non poter ancora essere esclusa definitivamente, la mia forma mentis scientifico-deduttiva-maniaco-ossessiva non accetterebbe mai una scorciatoia a basso prezzo come l’escludere a priori che io sia mosso da insindacabile desiderio di contestare per il gusto della contestazione. In più, effettivamente sono un rompipalle e la plastica americana mi rende irritabile, quindi la spiegazione alternativa può starci.

Ma siccome la vita ha molte sfaccettature e l’esistenza non è mai lineare, dobbiamo sopravvivere tutti quanti convivendo con un’ipotesi secondaria e certamente improbabile, ma eppure non trascurabile, circa l’innegabile candore del nostro sistema di valori.

Torniamo a noi e all’illusione di perfezione distillata da I fantasmi di Darwin. Dicevo, è ben scritto, la storia ben pensata e supportata da buon lavoro di documentazione. Perché non accontentarsi e dire solo Va bene così, l’ho letto, tutto, senza dovermi trascinare, che altro si vuole pretendere?

A questo punto dovrei raccontare un po’ della trama, c’è un escamotage letterario che fa da perno sul quale il libro ruota tutto il tempo. Dovrei dire ma senza svelare troppo per non rovinare il finale. Si dovrebbe fare così credo. Ci starebbe anche bene un discorsetto sui diritti calpestati delle popolazioni indigene ovunque nel mondo per mano degli occidentali, dell’ipocrisia della società occidentale che pensa siano i diritti civili la sua anima migliore, quando invece la sua anima vera, l’unica su cui si può costruire un processo con prove e giudici, tutto il resto sono le presunte anime che ci piacerebbe avere, è proprio l’anima di chi ha da sempre calpestato, e non ha nessuna intenzione di smettere di farlo, i diritti civili, umani e di qualunque altra natura di tutte le genti non occidentali. Poi dovrei proprio fare un altro discorsetto in tono aulico sugli intellettuali del sud del mondo che si integrano nell’establishment culturale americano, arricchendolo, dandogli quel gusto multiforme che solo loro yankee riescono a produrre, di certo non gli europei isolazionisti e identitari che non smetteranno mai di detestarsi a vicenda, pure tra vicini di pianerottolo. Se ne fossi capace, una buona argomentazione sarebbe anche quella sulla natura della fotografia, con un po’ di Roland Barthes e Susan Sontag quanto basta, questi due ci starebbero proprio bene, ora voi non capite perché, ma se leggete il libro lo capite senza che mi debba sforzare per convincervi. In effetti sulla fotografia c’è ancora così tanto da dire che potrebbero nascere un Roland Barthes e una Susan Sontag ogni dieci anni e avrebbero ampio materiale per dire sempre cose nuove.

Per dire, il rapporto della fotografia con la morte. Te lo sei mai chiesto tu quando ti fai quei selfie? Questo selfie che mando in giro di qua e di là, in che rapporto è con la mia morte, futura ma ineluttabile? Te la fai questa domanda quando fai boccuccia, gonfi il petto, strizzi le tette o guardi di sguincio per produrre il selfie, il tuo te effimero della durata di un battito di ciglia con il quale vuoi reclamare uno spazio al mondo? Click, ho prodotto il volto di un morto. Te lo sei chiesto? Non te lo sei chiesto. Roland Barthes avrebbe parecchio da dire su di te e su tutta questa faccenda.

Ariel Dorfman ne I fantasmi di Darwin fa balenare questa domanda, di rimbalzo, un po’ di straforo, lui sono certo che se l’è chiesto, ma poi copre quei bagliori forse per far sì che l’editor yankee non si accorga che erano spuntati bagliori inquietanti, perfino pericolosi, come sassi nell’ingranaggio. Su questa frontiera si ferma Dorfman. La frontiera dell’innocuità, del sapore piacevole per quasi tutti i palati, del gusto convenzionale, il terrore degli imprevisti, soprattutto degli imprevisti dolorosi, come un gomito fratturato o un ematoma sulla tibia.

Si legge piacevolmente, si termina senza rimpianti, si dimentica con naturalezza, come una giornata qualunque tra quelle che separano il presente dalla morte. Io cerco altro in un testo, in un romanzo, in un’espressione artistica o soltanto umana. Non so dire cosa cerco, lo riconosco solo quando lo trovo.

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Questa voce è stata pubblicata il 1 febbraio 2020 da in Autori, Clichy, Dorfman, Ariel, Editori con tag , , , .

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