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«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

L’altra voce – Lettere 1955-1972 – Alejandra Pizarnik

L’ALTRA VOCE – Lettere 1955-1972
Alejandra Pizarnik
A cura di Andrea Franzoni e Fabio Orecchini
Giometti & Antonello 2019

Alejandra Pizarnik è stata poetessa. Nacque a Buenos Aires il 29 aprile 1936 e morì suicida il 25 settembre 1972, sempre a Buenos Aires. Era considerata una delle più importanti poetesse argentine.

Non ho mai letto una sua poesia. In questo libro non ci sono poesie, ma lettere da lei scritte a diversi corrispondenti. Non compaiono mai le eventuali risposte e questo lo rende uno scambio epistolare monco. È a tutti gli effetti un monologo epistolare, il che dà un’impressione di straniamento forse non del tutto corrispondente alla realtà. La forma di monologo epistolare acuisce la drammaticità della raccolta di lettere.

In queste lettere non si ritrova alcun valore letterario. Non è la lettera al padre di Kafka, non sono le lettere di Vincent Van Gogh al fratello Theo, non è neppure, se non in minima parte, un carteggio che restituisce un ritratto storico di un’epoca o di una generazione. Possono avere un valore per gli studiosi di Pizarnik, certamente, ma tolto questo ambito specialistico, di per sè, in queste lettere, Alejandra Pizarnik non aveva niente di rilevante da dire. Erano banali lettere che non testimoniano alcunché, se non difficoltà di ordine quotidiano, riportano semplici conversazioni private. In questo senso sono L’altra voce, espressione usata da Pizarnik in una lettera per indicare “l’altra voce” che prende corpo attraverso l’ispirazione poetica, reinterpretata dai curatori dell’edizione che nella prefazione la usano invece all’opposto per indicare “l’altra voce” rispetto a quella poetica, voce che, sempre secondo i curatori, è carica di significati diversi che permettono piani di lettura differenti, letterario, culturale, storico eccetera, eccetera. Io più rozzamente dico solo che queste lettere sono “l’altra voce” di Pizarnik, quella senza spessore, senza poetica, la voce delle faccende quotidiane, delle comuni ipocrisie, dei ruoli sociali, un po’ stridula, perfino petulante, una voce spesso impacciata come spesso accade ai timidi.

Il motivo per il quale si legge questo libro è perché queste lettere sono la voce di una persona che alla fine delle lettere si è tolta la vita.

Per questa ragione si compra questo libro, magari lo si lascia invecchiare un po’, e finalmente un giorno lo si apre e lo si legge d’un fiato. Perché lei muore. Quando lo si finisce leggendo l’ultima lettera, l’ultimo periodo, banale, come lo è tutto quanto scritto in queste lettere, appena drammatizzato dai curatori per concludere ripetendo quei versi di Henri Michaux, citati e stracitati in tutto il volume (non siamo stati vigliacchi / abbiamo fatto quello che abbiamo potuto)

Forse, più in là, riuscirò a inviarle qualcuno dei miei 8 libri (son nata nel ’39): «on n’a pas été des lâches / on a fait ce qu’on a pu»…
Con vero fervore
Alejandra Pizarnik

si è a pagina 188, nella pagina a fianco compare l’indice, a quel punto si compie il gesto agognato, si realizza lo scopo della lettura: si chiude il volume e con quel gesto, con quel suono di libro che ritorna allo stato pristino, si assiste alla morte di Alejandra Pizarnik. La lettura di questo libro è finalizzata a compiere questo gesto e ad assaporarlo. Si è moderatamente soddisfatti, in parte compiaciuti, come quando si esce da uno spettacolo teatrale o un cinema, solo che in questo caso c’è il profumo e il sapore della realtà, lei, quella voce, muore veramente.

Poi si possono aggiungere i piani di lettura, culturale, letterario, storico e quanti altri si vuole aggiungere, ma tutti insieme non sono che un semplice corollario all’unico, forte, ineludibile motivo per ascoltare questa voce altra. Ed è solo questo il commento che voglio fare. Guardiamo la balena, l’enorme capodoglio, il moby dick mostruoso che prende forma non appena si apre questo libro e si iniziano le letterine stridule di Alejandra Pizarnik. Diciamo che è questa mostruosa bestia che ci attrae e ci incuriosisce e ci spaventa o ci inorridisce e ci solletica quell’amor proprio che per ragioni non sempre evidenti prende forme bizzarre come il piacere di assistere all’agonia, sperare di sentire nell’altra voce l’agonia del condannato che sul carro si avvicina alla piazza tra le urla e le ingiurie del mondo. Anche questo è parte di quell’organismo talvolta etereo talaltra bestiale che chiamiamo letteratura e lettura e lettori.

Restiamo ancora qualche istante in compagnia dell’altra voce di Alejandra Pizarnik. Come già detto, la voce è spesso stridula, ma pure sciocca, fuori luogo, ostentata, remissiva, lagnosa, ripetitiva, spesso falsa come una moneta di latta. Una voce comune, tutto sommato. Alejandra Pizarnik è per questo facilmente detta debole, fragile, aliena al mondo, estranea alla società argentina, delusa dalla vicende della vita, incapace di adattarsi alla scomparsa della Parigi letteraria, idealista, autodistruttiva, depressa, psicolabile, troppo ingenua, troppo sincera, troppo candida, troppo poeta.

Bisogna sempre trovare una spiegazione a chi si suicida. È sempre troppo o troppo poco di qualcosa. Uno psicologo direbbe probabilmente che è un meccanismo di autodifesa. I vivi si giustificano per essere vivi di fronte al suicida. Lo stesso psicologo aggiungerebbe forse che i vivi devono stare attenti a non esagerare con questo sforzo di autoconvincimento delle ragioni del suicida altrimenti finiscono per dare di matto. Quindi, va bene cercare tormentosamente una storia che soddisfi il bisogno di avere una giustificazione, ma che lo si faccia in fretta.

Io non ho nessuna spiegazione psicologica alternativa da offrire, ma una cosa da dire ce l’ho ed è che nella mancanza di sincerità e carattere delle lettere di Alejandra Pizarnik, nella loro banale assenza di scopo e consistenza, e in quel suono del libro che si chiude dopo aver riletto ancora i versi di Michaux, io ho risentito il vuoto, l’assenza di senso, di spiegazione e di giustificazione che invece nella mia personale esperienza prova il vivo di fronte al suicida e che continuerà a provare per sempre. L’agonia del suicida, agli occhi e alle orecchie del vivo, non è un racconto, non è letteratura, non è cultura. Sono frammenti di conversazione senza significato, sono lettere sciocche, sono istanti senza valore. È il vuoto, senza aggettivi. E l’assenza di giustificazione per essere vivo. Questa per me è l’altra voce e per questo provo molto amore per Alejandra Pizarnik.

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