«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
LA POLVERE DEL MONDO
Nicolas Bouvier
Traduzione di Maria Teresa Giavieri
Feltrinelli 2020
Non c’è dubbio che i libri di viaggi abbiano un posto d’onore tra le meraviglie del mondo e ne costituiscano una delle voci più antiche e autentiche di questa stirpe di derelitti che sono gli uomini. La narrazione dei grandi viaggi attraverso luoghi misteriosi del mondo accende l’immaginazione, risveglia il ricordo delle avventure immaginarie dell’infanzia, nutre i sogni a occhi aperti degli adulti. È questo quello che sperano anche i banali villeggianti di ritorno da mete che presumono esotiche quando ammorbano l’esistenza dei conoscenti con i loro racconti conditi di false esperienze di viaggio e corredate da immagini stereotipate. Siamo tutti viaggiatori nella concezione distorta che abbiamo di noi stessi, pochi lo sono realmente. Lo stesso tra i narratori di viaggi, pochi sono i veri scrittori, perché se è facile scrivere un diario, difficile è farne un racconto letterario, una narrazione che da didascalica assuma i toni della prosa, si faccia lirica, epica, intima, sacrale e, inevitabilmente, diventi un viaggio dell’anima, e nell’anima, del viaggiatore che come una sottile lastra di madreperla deforma e ricolora la realtà. Qualche anno fa Adelphi pubblicò un bellissimo libro di viaggi, Imperi dell’Indo di Alice Albinia, che nel risalire la valle dell’Indo percorre un viaggio nel tempo, il proprio e quello del mondo.
Esiste poi una speciale categoria, quella dei grandi libri di viaggi e dei grandi scrittori di viaggi. Sono libri rari, preziosi, andrebbero riletti e riletti ancora, per ogni volta scrutare una parte nuova del mistero che contengono, disciolto in immagini e parole talmente distillate da suonare aliene, come lo può essere ciò che più di ogni altra cosa si avvicina al concetto di verità.
La polvere del mondo è uno di questi libri e Nicolas Bouvier è uno di questi scrittori. Mi ha ricordato un altro libro eccezionale: Sia lode ora a uomini di fama, di James Agee, meraviglioso narratore, accompagnato da Walker Adams, altrettanto meraviglioso fotografo. Sono due libri molto diversi, uno la lenta traversata, da parte di uno scrittore e un pittore ventenni, dei Balcani, della Turchia, dell’Iran e dell’Afghanistan con meta ultima l’India; l’altro il reportage giornalistico dal sud rurale degli Stati Uniti. Gli anni non sono troppo dissimili, il 1952-53 per il primo, il 1936 per il secondo. Ma c’è qualcosa di profondo che accomuna questi due libri e li rende tanto straordinari: l’immobilità.
Può sembrare paradossale, un trucco retorico per spiazzare, ma non lo è. I più grandi tra gli scrittori di viaggi, con queste opere uniche e irripetibili, memorie tra le più preziose ci siano tramandate, incantano con l’avventura, commuovono con il viaggio nell’anima, ma vanno oltre, ed entrano nelle forme più ancestrali dell’immobilità. Il tempo assente, le persone fuori dalla storia, luoghi immemori, visioni di uno stato delle cose cristallizzato in forme circolari di sopravvivenza che travalicano la forma letteraria e la morale comune e che, per essere riprodotte, necessitano di un processo lento e doloroso di sublimazione delle parole, della voce, delle frasi.
In fondo al viaggio, come destino ultimo del viaggiatore, c’è l’immobilità; l’uomo si trasforma in sasso, in brezza, in discarica di rifiuti, in ossa calcinate dal sole, in eternità immobile. Sembra il ritratto delle morte, ma non lo è. Non è neppure vita però. Non abbiamo un nome per questo. Forse gli afgani o i bosniaci un tempo l’avevano, dubito che l’abbiano conservato.
“Prima tappa: breve tappa,” dicono i carovanieri persiani, i quali sanno bene che, già la sera della partenza, ognuno si accorgerà di aver dimenticato qualcosa a casa. Di solito, non si percorre che un farsakh. È necessario che gli sbadati possano ancora andare e venire prima del sorgere del sole. Questa concessione alla distrazione è per me un motivo in più per amare la Persia. Non credo esista in questo paese una sola disposizione pratica che trascuri l’irriducibile imperfezione dell’uomo.
La lingua di Bouvier, nella magnifica traduzione di Maria Teresa Giavieri, sulle prime produce un effetto straniante. Sempre sottovoce, asciutta, rifugge dall’enfasi e dall’epica, fatta di descrizioni frugali, brevi tratti diaristici subito interrotti. Frammentaria, riporta solo alcuni episodi selezionati, veloci pennellate. Eppure sono frammenti che si saldano uno con l’altro, pennellate isolate dalle quali lentamente, come il viaggio, come lo scorrere dei giorni scandito delle attese più di ogni altra cosa, emerge una sinfonia corale di volti segnati dalla fatica, di frasi smozzicate, di scorci imponenti e villaggi rotolati in fondo a una valle. Il viaggio non ha altro scopo che non quello di raggiungere l’India, come e quando questo avverrà non ha importanza. Cosa attende i viaggiatori oltre il prossimo passo montano, nel prossimo villaggio, durante la traversata di un deserto o dopo una sosta di mesi ad aspettare il disgelo, non lo sa nessuno e rientra nel novero delle domande che è inutile porsi.
Incredibilmente, agli occhi nostri appannati dalla modernità, la Fiat Topolino nera accompagnerà i due viaggiatori fino alla fine del viaggio, smontata e rimontata più e più volte, arrancando ansimante, abbandonata e poi recuperata, attraversa luoghi impossibili da immaginare ed è in tutto e per tutto il terzo viaggiatore del gruppo, tanto che dopo un po’ si capisce che non meno degli altri è protagonista della storia ed essa stessa ne ha una da raccontare.
Il libro scorre lento, non è breve, richiede tempo, non induce a corse scapicollanti ma a prestare attenzione al fruscio delle pagine, ad alzare spesso lo sguardo per rivolgerlo al vuoto, per poi riabbassarlo e percorrere un tratto ulteriore. Il senso di avventura si dilegua velocemente, non è quello il motivo che spinge alla lettura. Si sa che non succederà nulla di clamoroso, lo si capisce dal tono di voce che non recita, non prepara il terreno a sorprese, ma accompagna senza fare baccano.
Nel finale subentra la malinconia, prima è un refolo leggero, poi diventa un profumo di fiori intenso. Cambia anche la scrittura, è il commiato, che giunge ai piedi del passo Khyber che da sempre segna lo spartiacque drammatico tra il Medio Oriente, e ancora prima l’Europa, e la grande distesa del continente indiano. È un commiato da molte cose, ognuno vi collocherà le proprie inconfessabili. Di certo è il commiato dal tempo immobile, dal viaggio immemore, da una condizione circolare cristallizzata nella strada che scorre, nelle attese, nei pensieri, nelle domande che ognuno si pone, nella fatica di vivere, nella polvere del mondo.
…e il beneficio è reale, perché abbiamo diritto a queste vastità, e, una volta oltrepassate le frontiere, non ridiventeremo mai più quei miserabili pedanti che eravamo.
Ralph Waldo Emerson