«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
I RITI DI CACCIA DEI POPOLI SIBERIANI
Éveline Lot-Falck
Traduzione di Svevo D’Onofrio
2018 Adelphi
Éveline Lot è stata stimatissima studiosa dello sciamanismo siberiano e di molti usi e tradizioni dei popoli della Siberia. Gli oggetti utilizzati nelle pratiche rituali hanno particolarmente raccolto il suo interesse. Questo testo è sostanzialmente la sua tesi per il diploma in scienze religiose presso l’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Venne pubblicato per la prima volta nel 1953 ed è notevole per vastità e meticolosità. Éveline Lot era consapevole del fatto che l’estrema cura dei dettagli, il metodo d’analisi rigorosissimo e lo stile privo di ogni lirismo poteva rendere i suoi testi “tediosi” (cit.). L’importante era non scivolare nell’accademismo. E non vi scivola mai. Anzi, il tedio indotto dal rigore metodologico non è che la porta d’ingresso alla rappresentazione fornita da un osservatore ideale di un mondo metafisico popolato da genti antiche, non primitive, che hanno abitato un territorio sterminato, dagli Urali alla Kamchatka, dall’Oceano Artico al Caucaso, isolato, ricchissimo e severo con gli uomini che vi si stabiliscono. Queste popolazioni sopravvivevano ancora nei primi decenni del Novecento, anche se il processo di omologazione con il resto del mondo, russo in primo luogo, era già in stato avanzato. Ora niente più sopravvive ed è questa assenza che costituisce il cuore del testo. Quell’universo magico, rituale, ai nostri occhi bizzarro e inspiegabile, costituito dall’unione profondissima tra uomini e natura, non esiste più, ci rimangono solo i testi etnografici per cercare di percepire una scheggia di significato, un lampo di quando gli uomini erano natura, un’eco di quelle genti antiche ma non preistoriche, va ricordato che loro hanno vissuto il nostro stesso tempo, ma noi la Terra come l’hanno vissuta loro non la conosceremo mai.
C’è una domanda che mi sono fatto mentre lo leggevo e percepivo il tedio di quella rappresentazione distaccata e severa di esistenze intrise di magia, che agli occhi di quelle popolazioni era soltanto il modo normale di vivere, siamo noi a caricare di significati i significanti, il rigore metodologico e il respiro della terra, l’uomo in piedi di fronte all’animale come due invitati alla residenza del loro comune signore.
Mi chiedevo perché lo stavo leggendo proprio ora.
Sono passati almeno due anni da quando lo comprai e solo ora mi sono diretto verso la libreria sapendo che cercavo proprio questo libro.
Perché?
Capita spesso di darsi delle ragioni per leggere il libro che si legge. O il genere che si legge. Ragioni superficiali di norma, il libro che diverte, il libro che fa piangere, il libro che fa sognare, il libro dal quale si impara o che informa.
Perché si legge I riti di caccia dei popoli siberiani?
Fascinazioni esoteriche sono da escludere. Non c’è una briciola di esoterismo e semmai uno lo avesse immaginato, basta un paragrafo dello stile di Éveline Lot per capire come stanno le cose.
Narrazione dei felici selvaggi?
Come per l’esoterismo. Nada.
È un testo rigoroso, non c’è narrazione, lirismo, non c’è letteratura. Devi annoiarti per finirlo.
Quindi perché leggerlo adesso?
Forse per caso. Questo è sempre possibile. Poi ci si costruisce una narrazione addosso.
Forse però proprio perché è straniante, estraneo, inconoscibile, quasi un manufatto alieno che a prima vista sorprende poi risulta semplicemente inconoscibile.
Forse perché è l’anno del Covid?
Forse.
Abbiamo tutti voglia di liberarci dalle limitazioni, muoverci, rifare un viaggio, una vacanza, uscire, fare, andare, vedere.
Vogliamo riappropriarci della vecchia routine.
Certo.
Per questo esistono le letterature di svago. Per questo pare, così dicono, si sono moltiplicati gli aspiranti scrittori che inviano manoscritti.
Tutte reazioni comprensibili e di poco interesse anche per i diretti interessati.
Ma non si legge I riti di caccia dei popoli siberiani per la noia del Covid.
Forse c’è dell’altro.
Altra noia, di un livello differente, di altra natura.
Un tedio più stratificato, che è stato reso visibile dall’anno del Covid.
La propria geologia del tedio che gli smottamenti recenti hanno portato alla luce.
Strati sovrapposti di tedio che i decenni hanno depositato, sfumature diverse di tedio, memorie affondate nel tedio di un tempo che riemergono.
Questo stato autocontemplativo fa de I riti di caccia dei popoli siberiani una lettura-simbolo, una raffigurazione-specchio, un inconoscibile metafisico nel quale osservarsi.
Leggendo I riti di caccia dei popoli siberiani non ci si sente affini allo sciamano dei monti Altai o ai cacciatori Jacuti, tutti loro rimangono estranei come alieni di un altro pianeta. Tuttavia, leggendo degli strani rituali propiziatori e degli ancora più strani rituali che seguono l’uccisione dell’animale, leggendo dei ruoli di uomini e donne, ingiudicabili secondo i nostri standard illuministici, leggendo di come tutti abbiano costruito una meravigliosa cattedrale gotica di senso e, di nuovo, provando il tedio che Éveline Lot sapeva di ispirare, ci si interroga. Quanto ho dimenticato? Quanto ho evitato? Quanto mi sono privato? Di quanto sono responsabile io e di quanto è responsabile il mio tempo?
Lo sguardo salta dagli antichi cacciatori siberiani a Éveline Lot, entrambi inconoscibili, entrambi misteriosi, ma entrambi ora fratelli. Fratelli di straniamento. Chi era Éveline Lot? Come ha costruito quel castello di erudizione? Quando ha deciso di dedicare la vita agli antichi cacciatori siberiani? Come ha imparato quello stile così ferocemente perfetto?
Interrogativi. Visioni. Luce laminare, luce globulare. Strati della nostra geologia, remota quanto le foreste siberiane, popolata dai nostri idoli, dai nostri riti, dal nostro Nonno orso, signore delle foreste senza confini.
Gli antichi cacciatori siberiani per poter partire per una battuta di caccia nella foresta devono spogliarsi di tutto quanto li lega all’esistenza quotidiana. Non solo degli abiti, degli strumenti e dell’odore che viene con essi. Di tutto. Della lingua parlata quotidianamente, della famiglia, dei rapporti sociali, delle movenze, di tutto, fino a spogliarsi anche dei pensieri.
Solo così possono entrare nella foresta senza che questa, e tutti gli animali suoi abitanti, non si ritiri fuggendo dal cacciatore. Solo privandosi di tutto, l’uomo diventa una creatura della foresta.
Quale foresta è la nostra?
Un libro per pochi. Un libro come pochi.