«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
ISLANDS OF ABANDONMENT – Life in the Post-Human Landscape
Cal Flyn
William Collins 2021
Aggiornamento Aprile 2022: è stata pubblicata l’edizione italiana per i tipi di Atlantide, con la traduzione di Ilaria Oddenino.
Dimenticate le sciocche frivolezze dallo sgradevole retrogusto moralista del diario dalla Silicon Valley o le arguzie pseudoscientifiche buone per far bella figura durante gli aperitivi, lasciate che questi titoli ammiccanti finiscano nell’oblio dell’invenduto e non rattristatevi per il flop della saggistica divulgativa o literary non-fiction, come vi pare, anzi, protestate senza tregua quando gli editori spacciano cretinaggine per sguardo acuto, furbesche manovre commerciali per iniziative culturali, slogan per contenuti, cacatine per gemme. Non accontentatevi perché là fuori c’è di meglio, ci sono gemme.
Questo Islands of abandonment è una gemma, un libro bellissimo che riempie di senso e di pensieri lo spazio indeterminato della saggistica letteraria. Cal Flyn, scozzese, autrice magnificamente ispirata da una visione tanto circolare quanto acuta e da un respiro profondamente letterario scrive un testo che, per conto mio, salta in cima ai grandi testi che gettano uno sguardo sul nostro tempo, su ciò che siamo, quello che abbiamo fatto e cosa è il tempo dopo il nostro passaggio.
Cal Flyn, lontana dalle presuntuose lezioni di certi intellettuali, dalla ormai sfacciata ipocrisia dei politici, dalla supponente ignoranza di molti giornalisti, e dai belati delle opinioni scambiate nei canali del quotidiano cicaleccio, si mette in cammino attraversando luoghi dimenticati ma che si ergono come vestigia di un passato recentissimo quando l’uomo e le sue attività ne hanno tratto vantaggio, profitto, piacere, ne hanno abusato, poi abusato ancora, abusato fino a che non servivano più a niente e sono stati lasciati al loro insignificante destino.
Il suo è uno sguardo da viaggiatore dell’antichità, moderno Erodoto che attraversa lande sconosciute dove incontra fenomeni inimmaginabili, abitanti fantastici, vede panorami di cui nessuno sospettava l’esistenza. Con la differenza che se gli antichi viaggiatori andavano alla scoperta delle meraviglie e dell’esotismo di un mondo che vedevano nascere di fronte ai propri occhi, Cal Flyn esplora un mondo che ha esaurito ogni spazio vergine, ha operato violenza su ogni ecosistema, ha costruito ovunque, arato, spogliato, svuotato e scavato. E infine abbandonato i luoghi al proprio destino senza comprendere che gli uomini e i luoghi condividono un destino comune.
Ma non è tutto qui. Sarebbe già molto percorrere le piste della devastazione, ma Cal Flyn fa di più. Guarda oltre alla devastazione e porta se stessa, il suo corpo, i suoi sensi e pensieri al centro dei luoghi da dove traspira la vita che segue la devastazione. Con questo gesto ampio e lirico attraversa il confine tra la testimonianza e la narrativa. Questo è un libro di testimonianza e anche di narrativa, alchimia fragilissima da maneggiare che richiede un’arte posseduta solo da pochi.
I luoghi raccontati da Cal Flyn sono molti e di molti tipi diversi, alcuni esotici, altri urbani, alcuni in località remote del mondo, altri potremmo dire dietro casa, o quasi, ma nessuno di questi risulta banale e soprattutto neppure semplicemente pittoresco. Parlando di devastazioni è facile cadere nel moralismo o nel voyerismo, farsi prendere da un’estetica della catastrofe o da soluzionismo vaneggiante. È facile atteggiarsi, motteggiare, recitare la parte nella commedia dell’editoria, è facile accondiscendere alla vanità del reporter o ergersi sul piedistallo della guida che scruta nel buio.
È meno facile parlare della morte e raccontare come la vita rinasce, perché il tempo non si ferma, le forze naturali che tutto muovono continuano a esercitare la loro opera.
Piccoli ecosistemi che si riformano sulle colline di detriti da scavi minerari, negli atolli protetti dai quali i test nucleari avevano cancellato ogni forma di vita, tra le rovine industriali di città polverizzate dalla crisi economica, in isole una volta abitate e poi abbandonate, in luoghi i cui i terreni o acque sono intrisi da inquinanti chimici o contaminati da radiazioni, regioni distrutte da tonnellate di esplosivi.
Isole di distruzione abbandonate da decenni dove la natura riprende il suo ciclo senza gli uomini, dopo il passaggio degli uomini, sulle macerie perenni lasciate dagli uomini.
Isole di distruzione come reliquie di un passato che si credeva grandioso e prospero che si svelano allo stesso modo delle grandi rovine dell’antichità. Templi, tombe, città, grandi manufatti della nostra archeologia antica, testimoni della civiltà crescente, sono l’immagine speculare delle isole di distruzione abbandonate, altrettanti templi, tombe, città e grandi manufatti della civiltà, questa volta nel suo declino. C’è solennità anche nelle devastazioni lasciate dal passaggio degli uomini, l’impronta dell’enorme potere, della ferocia distruttrice della civiltà, è la solennità dell’atto brutale dell’imperatore. Questa solennità Cal Flyn la osserva e la raccoglie nelle sue pagine.
A questo segue il silenzio. C’è sempre il silenzio dopo la fine di una civiltà. Il silenzio che avvertiamo guardando le rovine antiche, il silenzio che avvolge le piramidi, i grandi templi, le arene maestose. Il silenzio del Partenone solitario in cima alla collina, il silenzio delle colonne dei Fori Imperiali, il silenzio delle rovine nascoste nella giungla. Non si sente questo silenzio visitando i reperti conservati nei musei. È solo nei luoghi originari che ci è concesso ascoltare il silenzio delle rovine. I luoghi che visita Cal Flyn sono tutti immersi nel silenzio. Sono pagine intrise di silenzio le sue, immagini silenziose ci scorrono davanti agli occhi e nelle fotografie che accompagnano il testo, pensieri silenziosi ci attraversano durante la lettura, e silenziosamente assistiamo alla natura che riprende a muoversi con il suo ritmo lento e inesorabile, sulle colline di detriti, nei boschi intrisi di sostanze tossiche, nelle acque inquinate da diossina, tra gli scheletri di edifici industriali, nelle generazioni di animali che lentamente perdono i tratti della domesticazione per ritrovare elementi selvatici.
Non è la cronaca di una fine, ma un movimento di marea, un’onda di risacca quello raccontato da Cal Flyn ed è un racconto meraviglioso che per ragioni che non riesco a spiegare a un certo punto della lettura mi ha innescato un ricordo antico, quasi arcaico, intimo, sepolto da strati di detriti, strati di quotidianità, isole di distruzione che ognuno si porta con sé. Un ricordo immobile da decenni, mai più ritrovato che improvvisamente è risalito e ha accompagnato gran parte della lettura. È il ricordo de Il settimo sigillo, il grande film di Ingmar Bergman, quello dei dialoghi tra la morte e Antonius il cavaliere, con la partita a scacchi finale. Grottesco, visionario, ispirato, una grandiosità ineguagliabile.
Mi auguro molto che Islands of abandonment trovi anche un editore italiano.
Antonius: E tu ci svelerai i tuoi segreti?
Morte: Io non ho nessun segreto da svelare
Antonius: Allora non sai niente
Morte: Non mi serve sapere
Grazie mille! L’ho appena acquistato grazie alla sua recensione.
Mannaggia, ho visto solo ora tua segnalazione, che peccato (una volta mi pareva arrivasse email di avviso). Grazie, sei sempre sul pezzo:-)) Quando leggo qualche bel libro vado sempre a vedere se ne hai parlato; ora stavo cercando Vita e destino di Grossman, e ho visto che quello manca, ma ce ne sono altri due suoi, e che Tutto scorre l’avevo pure commentato ai tempi! Il problema è che dopo un capolavoro simile si rimane orfani per un bel po’, so che capisci.
Ciao Marco, e grazie. Spero che il testo venga tradotto per poterlo leggere. Qualche mese fa ho letto Appunti di un’Apocalisse di Mark O’Connell edito da Il Saggiatore e tradotto da Alessandra Castellazzi. Probabilmente è meno poetico rispetto a questo di Cal Flyn, ma l’ho trovato ben scritto, interessante, intelligente, ironico il giusto, e soprattutto mi è parso un libro “sentito”. Ne ho tratto spunto per scriverne qui a proposito della “transizione ecologica” di cui ci si riempie la bocca, il più delle volte a vanvera, per opportunismo politico…
https://www.arcipelagomilano.org/archives/58474
Ciao Marina. Ah! Mark O’Connell è al Piccolo Teatro questo sabato https://www.piccoloteatro.org/it/2021-2022/appunti-da-un-apocalisse-pensieri-e-letture. Bello il tuo pezzo su Arcipelago Milano, anche Cal Flyn ha un capitolo sulla Zona di Pripyat (quasi d’obbligo), ma sono altri quelli migliori.