«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
EVA DALLE SUE ROVINE
Ananda Devi
Traduzione di Giuseppe G. Allegri
Utopia 2021
Una storia drammatica di bambini e bambine cresciute in fretta in un luogo per noi esotico.
È un bel libro.
Non voglio parlare di questo, la sinossi dell’editore dice già tutto.
Voglio invece parlare parlarti dei personaggi che un autore consegna al pubblico dei lettori perché è a questo che continuavo a pensare e ripensare e ritornare a ogni pagina di questo libro.
Vi consegno la mia Eva
Trattate bene il mio Sad
La mia Petra è vostra ora
Il mio Gianus non è più con me ma vive con voi
Non so se Ananda Devi abbia mai detto qualcosa del genere o l’abbia pensato. Forse no, forse sì, non importa. Io non facevo che pensare a questa idea di consegnare un proprio personaggio al pubblico, forse perché i personaggi di Ananda Devi mi sembravano scritti nel modo adatto a dire Vi consegno la mia Eva.
L’ho letto spesso, Vi consegno la mia Ofelia e ogni volta mi ha lasciato perplesso, Cosa vuoi dire? Cosa vorresti che accadesse? Cosa intendi per consegnare e perché vuoi consegnare il tuo personaggio? A volte mi ha ricordato quelli che ti fermano per strada e cercano di consegnarti un oggettino, dicono che è gratis ma invece vogliono che tu gli dia dei soldi altrimenti te lo chiedono indietro e si arrabbiano.
A volte mi è capitato di avere la stessa sensazione quando ho letto qualcuno dire che consegnava il proprio personaggio, e mi è sempre sembrato insincero, un trucco banale per attirare l’attenzione, una forma di ingenuità bagnata di arroganza. Cosa consegni? Perchè pensi di stare consegnando qualcosa? Perché credi che qualcuno voglia o anche soltanto accondiscenda a ricevere? Perché pretendi di sapere qualcosa di qualcuno?
È probabilmente un giudizio esagerato, lo so bene, ma i personaggi di Ananda Devi mi facevano tornare in mente quella situazione. Sto mettendo Ananda Devi in mezzo a una cosa con la quale non c’entra nulla, lo so, mi spiace, Eva dalle sue rovine è un libro bello, non voglio sembrare parlare di altro per parlare di questo.
Ananda Devi non consegna nulla a nessuno, naturalmente, ma i suoi Eva, Sad, Savita, Clélio sono rivestiti da quell’ingenua illusione, che costituisce lo spirito più autentico del raccontare storie, di credere che i personaggi letterari prendano vita o siano attraversati da un’autocoscienza invece di essere semplicemente parole su dei fogli di carta. Probabilmente è quello che insegnano a chiunque voglia scrivere storie.
Senza questa illusione non esisterebbero le storie e il narrare, ma per qualche ragione ora, adesso, sotto questo cielo, questa illusione a me sembra un inganno, un imbroglio, suona di parole false, suona come qualcuno che cerca di affabulare delle anime semplici, sembra la dichiarazione di qualcuno che ha perso il contatto con la realtà e si è convinto o convinta che esista un pubblico pronto a fare spazio al suo personaggio oppure, anche peggio, che il pubblico non sia che una collezione di personaggi da lei o lui creata.
Queste storie, le storie letterarie classiche, quelle con i personaggi che si potrebbero consegnare ai lettori, per me, hanno assunto una sfumatura livida, un tono cupo, una voce lontana perché chiedono un atto di fede, l’adesione a uno stato emotivo, una forma di cameratismo e una comunione di sguardi che io non offro più, se mai l’ho offerta, e per le quali non vedo più alcuno spazio nel mondo, a meno di non volersi sprofondare nella nostalgia dei falsi ricordi di irreali epoche passate.
Vedo scorrere questi personaggi come persone mascherate e distanziate su un marciapiedi anonimo, li vedo parlare come estranei che noiosamente opinionano su un social network, osservo gli sforzi degli autori e delle autrici nell’aggiungere questo e quel dettaglio illudendosi di infondere credibilità e spazio e tempo a loro fantasie, li sento, talvolta, le rare volte che presto attenzione, rilasciare interviste nelle quali raccontano il racconto, raccontano le loro piccole fantasie e i piccoli personaggi che da quelle sono scaturiti con nella voce l’illusione di essere creduti o credute, di non essere smascherati e smascherate nell’imbroglio. Qualcuno e qualcuna sembra perfino convinto e convinta di quel che va dicendo, di avere opinioni degne di attenzione, della sua Petra o Pietro che vorrebbero consegnare al pubblico.
Di solito scuoto la testa, spengo quasi sempre, qualche volta cambio canale della radio, cancello, pulisco.
Poi, oggi, ho ascoltato la voce di Vitaliano Trevisan, non c’era venatura di illusione nelle sue parole, non c’era nessuna richiesta, nessuna domanda, nessuna condivisione, nessuna nostalgia, solo qualche ricordo, l’eco della solitudine, non consegnava niente, sapeva chi era, verrà dimenticato presto da quasi tutti.