«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
PER I SENTIERI DOVE CRESCE L’ERBA
Knut Hamsun
Traduzione di Maria Valeria D’Avino
Fazi 2014
La storia che pesa, la storia che si trascina come carcasse di vacca, la storia come unica voce in grado di dare spiegazioni. Knut Hamsun è inscindibile dalla sua storia – l’assurda pretesa di leggere le opere di un autore come creature scisse dalla vita dell’autore stesso – e allo stesso tempo la storia di Knut Hamsun va circoscritta – l’altrettanto assurda pretesa di giudicare le opere di un autore attraverso la lente della sua storia personale.
La storia complica le cose, inutile negarlo, soprattutto quando si è di fronte a un grande narratore, un grande scienziato, un grande uomo o una grande donna, tali per indiscutibili meriti.
Ammetto che con Hamsun questa complicazione della storia mi ha frenato e ancora adesso mi mette a disagio non sapere bene che direzione prendere. Anche con Spengler. Non con Céline, non con Drieu la Rochelle, non con E. O. Wilson e altri dalle vite disprezzabili. Non c’è un reale motivo per cui per alcuni in un modo, per altri in un altro, so solo che mi sembra sia giusto così. Non ho fatto diversamente da quelli che hanno denigrato Peter Handke e la decisione di assegnargli il premio Nobel. Questi li ho disprezzati, perfino insultati in qualche caso, e tuttora continuo a disprezzarli e non ci metterei molto per insultarli nuovamente. Però non ho fatto così diversamente da loro con Hamsun, mi sono solo risparmiato il moralismo. Ugualmente non ho mai smesso un secondo di pensare che i premi letterari, le classifiche letterarie, qualunque premio letterario, dalla manifestazione di quartiere fino al premio Nobel per la Letteratura, e qualunque classifica letteraria, da quelle pubblicitarie dei quotidiani fino a quelle cosiddette “di qualità” di librai e lettori, siano solo delle sceneggiate il cui modello ideale è il concorso canoro, e più si affannano per darsi arie di intellettualità e qualità, più diventano grottesche e implausibili. In questo senso, il Premio Strega e il Festival di Sanremo sono gemelli omozigoti, con lo stesso provincialismo infiorato, stesso sberluccicare di inconsapevole citazionismo, lo schiamazzare stridulo degli degli uffici stampa, e soprattutto lo stesso pubblico, con le stesse facce di cera e sorrisi obliqui, antropologicamente inadeguato agli abiti che indossa, adatti solo a memorie e fantasie, la stessa goffaggine rumorosa della terrazza romana e della platea dei velluti che a pesanti zampate avanza nella serata di gala.
Eppure, dopo lo scontato elenco di critiche, non posso fare a meno di ammettere che è proprio quel kitsch rozzo ed epiteliale a dare senso alle esibizioni pubbliche, non i libri o le canzoni, l’arte, il bello, la cultura, simulacri svuotati di ogni valore che non sia solo individuale. È l’esibizione di giubilo dei partecipanti esclusivi, le trippe fasciate, i piedi gonfi in scarpe troppo lucide, i sorrisi mascellari, le pose da manichini del negozio di mutande, a conferire spessore e dare un senso ai premi e ai festival, è l’umanità che si accalca eccitata da vampe ormonali lo spirito autentico delle manifestazioni artistiche come delle sagre popolari, non le malinconiche solitudini dell’asceta.
Al kitsch nazional-popolare associo la mia difficoltà di venire a patti con la storia di sguaiato nazista di Knut Hamsun, perché è al mal riposto disprezzo per il pecoreccio che penso quando mi interrogo sull’averlo voluto mantenere a me estraneo, e se una volta i conti mi tornavano, ora non mi tornano più, qualcosa che una volta c’era, ha ceduto ed è svanito. Vedo una contraddizione irrisolvibile tra il fastidio per la sguaiatezza della folla e l’anemia mortifera e mortalmente deprimente della ricerca della qualità.
Pochi come Knut Hamsun hanno incarnato in forma iperbolica questa irrisolvibile contraddizione della natura umana.
In Per i sentieri dove cresce l’erba Hamsun racconta, romanzandoli, i suoi ultimi anni quando, nonagenario, agli arresti e in attesa di sentenza, il mondo gli chiede conto della sua esistenza e il kitsch di due epoche si scontra nella sua persona.
Cerca senz’altro di conquistarsi simpatie, velatamente si giustifica per quanto ha fatto e rappresentato pubblicamente, si discolpa con la più classica delle scuse, il non aver saputo cosa stesse accadendo fino a che non era troppo tardi per tornare indietro, lo fa con garbo e ironia, con i modi della persona educata, senza mai però davvero rinnegare se stesso. Lo stile è altra cosa rispetto alla foga rabbiosa e delirante di Céline o l’abisso di disperazione di Drieu, ma ancor più di loro, più di Heidegger, più degli epigoni desiderosi come cani di leccare le briciole, più di tutti, è proprio lui, Hamsun, a non cedere su nulla, fino a scrivere un intero libro, questo, di straordinaria perfezione letteraria, per intimare che non si osi cercare la comoda giustificazione di prenderlo per un vecchio pazzo, un povero squilibrato che inneggiava alla completa germanizzazione dell’Europa, un debole di mente che balbettava elogi funebri di Hitler. Si discolpa dalle accuse, ma non rinnega niente di ciò in cui ha creduto.
La sua ultima difesa la sostiene con lo stile letterario di uno dei grandi narratori del Novecento, mettendoci quella naturalezza nel raccontare che solo a pochissimi è concessa. La leggerezza con la quale descrive il suo internamento forzato in ospedale, poi in clinica psichiatrica, infine in ospizio, è sublime, gioca con il suo essere un vecchio sordo una volta celebrato dal mondo, poi da quello stesso disprezzato come vergogna nazionale, e in questo ribaltamento di prospettiva lui vuole far sapere che guarda un po’ sorpreso, perfino un po’ divertito, senza capire cosa sia veramente cambiato tra quello che era e quello che è. Imbastisce scenette grottesche del suo volersi presentare come persona normale che si ritrova limitato nelle funzioni quotidiane, in parte per l’età avanzata e in parte per la sorveglianza dei gendarmi. Giudica e predica usando la sua condizione come emblematica di una insensatezza diffusa, un delirio di inconsistenza intellettuale e, a suo dire, di un accanimento inumano da parte di quelli che lo condannano.
Per i sentieri dove cresce l’erba è l’ultima opera di un grande scrittore, un racconto biografico che è anche romanzo in forma di commedia. Un libro bello, scritto magistralmente, leggero da leggere, profondo da osservare, irreale come una rappresentazione teatrale, divertente come lo sketch di un vecchio clown, morbido come la voce di un crooner, ambiguo come le parole di un imputato a Norimberga.
Se posso, di Hamsun consiglierei la lettura di “Fame”. Un capolavoro, secondo me.
Ho letto Pan consigliatomi da un amico. Autore che mi riprometto di conoscere meglio ma che pospongo ad altri, da due anni ormai.
Non ho un ordine. Probabile che lo riprenda da questo romanzo della fine.
Il romanzo di Glahn mi lasciò incuriosita. L’amore è una forza della natura incontenibile che pure ne inibisce la sua selvaggia libertà.
Leggerò Germogli della terra. Sono sospettoso, quasi diffidente.