«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
ENTRONAUTI
Piero Scanziani
Utopia 2022
Piero Scanziani, come Massimo Bontempelli, sono grandi recuperi di Utopia dall’oblio che, come è evidente, tutto nasconde ma niente distrugge, a differenza della memoria.
Questo Entronauti è il secondo titolo di Scanziani che pubblica Utopia e come il primo, Avventura dell’uomo, racconta di un viaggio spirituale, in questo caso fatto di molti viaggi fisici, con le valigie, le scarpe, nel mondo. Entrambi sono viaggi nella vita di un uomo, nella vita di Piero Scanziani, la propria vita, che è solo quella la vita di cui a malapena ognuno può parlare.
In questo Entronauti Scanziani viaggia in direzione dei santi, dei profeti, dei bonzi, degli anacoreti, degli eremiti, dei saggi, delle madri, alla ricerca di coloro che hanno trovato la gioia, quella inaccessibile a chiunque abbia conservato la coscienza di sé, necessaria alla vita civile, alla cultura, all’educazione, alla famiglia, quella necessaria a occupare uno spazio nel tempo.
Viaggia, Scanziani. Un po’ sfruttando il suo mestiere di giornalista, un po’ smarrendosi, forse anche sognando. Viaggia ogni volta verso un confine del mondo, ogni volta raggiungendo un limite estremo oltre al quale non si prosegue. La gioia è là, per chi raggiunge il limite delle terre e si siede, respirando l’eterno e sorridendosi. Arretrando. Arretrare per conservare la serenità, questo dice Kapila, maestro tantrico incontrato a Benares, che non smette mai di peregrinare.
Viaggia verso l’estremo Occidente e verso l’estremo Oriente, viaggia verso le grandi solitudini e verso le metropoli, viaggia verso il cuore delle civiltà millenarie, e in ogni posto incontra qualcuno che si dice abbia raggiunto la gioia, conosca come ottenerla, sia un entronauta, tanto per usare un termine che non significa nulla e quindi non esclude nessuno. Scrive e viaggia, Viaggia e scrive. Scrive come viaggia, confuso, caparbio, perdendo e ritrovando la direzione del viaggio e delle parole, anelando di raggiungere una fine della terra, come la fine delle parole che si possono dire, di spogliarsi di ciò che impedisce la gioia, spogliando allo stesso tempo anche la forma del racconto.
Se sapessi far questo, potrei descrivere la danza dei dervisci. Non so farlo. Eppure ho visto veramente i dervisci danzare.
La danza cominciò a notte fonda. Era stata preceduta da un lunghissimo silenzio. Nascosto nell’angolo più buio della terrazza, acquattato, stretto il respiro, vedevo nitida la stanza illuminata coi sette dervisci. Indossavano abiti e berretti antichi, rossi bianchi gialli, avevano intorno oggetti rituali con le chitarre e i cembali. L’aria recava un profumo d’incenso orientale, che forse saliva dal basso o usciva dalla stanza o era in me. Nel cielo crescevano le stelle. […]
Ormai era notte fonda e nel buio vedevo i sette dervisci, le gambe incrociate sul pavimento, immobili. Poi si udì una chitarra, cadenzata dal cembalo, e Zarkub si alzò. La notte era sacra, sacra la stanza, sacro il firmamento. Come scriverli?
«David danzò la gloria di Geova, danzò con tutta la sua forza, cantando al suono delle chitarre e dei cembali. E lo spirito di Geova invase David».
Ciò accadde davanti a me, lo testifico, a me, spettatore lontano.
Viaggia in California, viaggia a Parigi, viaggia a Bangkok e in Cina, a Teheran e Isfahan, ogni volta cercando una fine della terra e la gioia che là forse si cela. Viaggia una prima volta in India, dove incontra le tracce di grandi profeti, incontra comunità di persone anche loro alla ricerca della gioia. Poi la visita una seconda volta, quando finalmente riesce a raggiungere una fine della terra e la sua estasi. Lo fa seguendo le peregrinazioni di Kapila, spogliandosi di tutto, liberandosi della coscienza di sé, vivendo vita ascetica, coperto di stracci, con i piedi piagati dal camminare. Sulle rive di un oceano trova la solitudine e l’abbandono che gli mostrano la gioia. Dura poco, ma è sufficiente per poter fare ritorno alle proprie radici, le radici cristiane, le radici europee, e cercare il confine della terra cristiana ed europea.
Il suo viaggio si conclude sulla rupe del Monte Athos, ultima enclave del tempo dei padri della Chiesa dove è la morte a rivelargli la via per la gioia: «Si nasce e si muore nel medesimo punto dell’eternità».
In quella gioia, la morte pareva un’assurdità. L’avevo perfino dimenticata.
Lei no, mi ricordava. Eccola lì: cranio sullo spiazzo erboso, con il suo triste ghigno, a dirmi che non c’è salvezza, nemmeno per chi ha penato cinquant’anni in una grotta. Contemplazione della morte, esercizio da anacoreta. Nel tramonto mediterraneo, appaiono le prime stelle.
Siedo per terra, accanto alla morte e la guardo. Come fuggirla, se la porto in me, sotto le carni, paziente, con lo stesso ghigno? La guardo e l’interrogo: solo lei ci consente di capire la vita.
Non risponde. È il silenzio del nulla? Il nulla non c’e: se ci fosse, non sarebbe il nulla. È il silenzio dell’inferno? L’inferno non c’è: se ci fosse, Dio sarebbe imperfetto. È il silenzio del segreto? È il tacito invito alla ricerca? È l’incitamento a spezzare questa piccola vita, per trovare una vita divina? Tace. O risponde con la mia stessa bocca. Forse dice:
«Si nasce e si muore nel medesimo punto dell’eternità».
Grazie
sempre più bravo, sempre più interessante. grazie per aver parlato per ben due volte di un autore straordinario come scanziani, bravissimi i ragazzi di utopia. e che mi dice di hassan blasim, sempre pubblicato da loro?
Molto bravi gli utopici. Di Blasim dico che è la prima volta che lo sento nominare, ma in compenso sta per arrivare Augustin Mallo, dopo molta attesa.