«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
ORSI DANZANTI – Storie di nostalgici della vita sotto il comunismo
Witold Szabłowski
Traduzione di Leonardo Masi
Keller 2022
Orsi danzanti è scritto bene e si legge con facilità.
Fa il suo mestiere di intrattenere e incuriosire.
Uno può pure finirlo con la ragionevole convinzione di essere più edotto della storia e del mondo di quanto non lo fosse prima.
Di sicuro si guadagnano begli aneddoti da raccontare nelle chiacchierate conviviali.
È un libro che sta avendo un giusto successo ed è anche un bel regalo da fare, cosa che infatti io farò con la mia copia (NB: io maneggio i libri con una tale delicatezza che sono intonsi al termine della lettura, mica come certuni che li strapazzano e poi pure se ne vantano). La regalerò dicendo: Guarda, questo è proprio un libro interessante e che si legge con gusto, vedrai, ti piacerà di sicuro. Lo dirò in tutta onestà.
Ci sono però un paio di aspetti che sono risultati sgradevoli al mio gusto contraffatto e degenere ed entrambi sono riassunti da titolo e sottotitolo.
Il libro è diviso in due parti. La prima racconta degli zingari bulgari e dei loro orsi. La seconda di gente triste perché non c’è ancora o non c’è più il comunismo. La prima parte è unitaria, la seconda è frammentata. Entrambe hanno in comune la derisione per i soggetti raccontati.
Partiamo dalla prima parte. Si parla di zingari bulgari e di loro usi e costumi, in particolare quello di prendere orsetti neonati, piantare loro un anello nel naso per renderli docili e poi, con le buone o le cattive, insegnargli a zampettare per far credere che stiano ballando. Ora gli orsi danzanti li hanno vietati, sequestrati e messi in una riserva ad aspettare di morire e gli zingari immagino si debbano accontentare di animali più comuni per i loro spettacolini.
Quando si parla di zingari c’è sempre però un problema di tono e di convenienza. Se li si tratta con troppo astio si passa per nazisti con le bombole di gas pronte all’uso, se i modi sono troppo morbidi e accondiscendenti si diventa idealisti radical-chic da salotto bene che te li devi prendere in casa tua poi vediamo se sei ancora così amorevole con loro. La derisione invece è comunemente ritenuta una pratica sociale accettabile, anche perché gli zingari si prestano bene con la loro rozza ignoranza, modi imbroglioni e vestiti circensi. Da qui la derisione dello zingaro, per di più bulgaro, come scelta stilistica per raccontare una storia di folklore e farla piacere un po’ a tutti, nazisti, salottieri e gente educatamente moderata.
Riguardo la seconda parte, quella dei ritagli di gente che starebbe meglio se ci fosse il comunismo, Szabłowski ci presenta Il museo di Stalin in Georgia, il bar a Belgrado dove andava Radovan Karadzić – il macellaio di Srebreniça, quando si era travestito da medico naturopata e tutti dicevano che era una così brava persona -, la vecchia senza casa polacca a Londra, varie bizzarrie albanesi e kosovare, il quartiere anarchico, trotzkista e studentesco di Exarchia ad Atene diventato una fogna di graffitari, tossici e beoni.
Cose così, insomma, da sghignazzare, piccoli ritratti di gente miserabile che si rende ridicola cercando qualche giustificazione alla propria vita miserabile rievocando vecchi fasti inesistenti del comunismo o improbabili vaneggiamenti utopici.
Di nuovo, la derisione come cifra stilistica.
Ora il secondo aspetto che mi è suonato stonato come una tromba sfondata di uno zingaro di Quarto Oggiaro.
Se gli zingari e i nostalgici vengono derisi, gli orsi, i poveri orsi, sono trasformati in metafora edificante e libertaria che ancora una volta può piacere a tutti, dai nazisti ai vegani, passando per le borse di Louis Vuitton.
Szabłowski presenta la storia degli orsi bulgari come una grande e commovente metafora sulla libertà e la schiavitù, la libertà da restituire a piccoli assaggi, le catene del corpo e quelle dello spirito, le prime si spezzano, le seconde si sciolgono lentamente a volte pure troppo lentamente e la forza selvaggia ridotta a marionetta danzante e l’affetto tra vittima e carnefice, di libertà si può anche morire, il trauma della libertà e bla bla bla… come prima, dai nazisti ai vegani, passando per le borse di Louis Vuitton – la metafora edificante libertaria conforta tutti.
Ci sarebbe da aprire una discussione lunga e tormentosa sull’uso e abuso e intossicazione da metafore edificanti e libertarie che pervade il discorso pubblico e sul fatto che solo gente astiosa e scorbutica dica Ma basta con queste metafore edificanti libertarie false peggio di una catena d’oro che ti vende uno zingaro con o senza orso.
Ma io non apro questa discussione.
Invece, vi chiedo, ti chiedo, anzi facciamo mi chiedo se tutta questa cifra stilistica, la derisione, la metafora edificante libertaria, il racconto folkloristico, la gente triste e ridicola non suoni familiare, un déja vu, una storia già sentita. Ma dove l’ho sentita? Dove l’ho incontrata?
…
…
I social network!!!
Facebook, Twitter, i gruppi Whatsup, le storie, i thread… quello che vi pare… non fanno proprio la stessa cosa? Non vivono per questo? Si prende una cosa che ha detto o fatto qualcuno, la si condivide e la si commenta ridicolizzando l’autore, cosa ha detto, cosa ha fatto, come ha scritto, come si era vestito, facendone lo zingaro con l’orso. E tutto intorno si radunano gli amici, i passanti, i lettori che quasi unanimemente approvano, ridacchiano, sostengono, cuorano, stellinano, poi tocca al prossimo. Chi più è bravo in questa attività, più diventa famoso sui social.
Cosa dire delle metafore edificanti libertarie sui social? Sono anche lì il contraltare alla ridicolizzazione. Da un lato si ridicolizzano i presunti stupidi, dall’altro si compatiscono i presunti miseri con metafore edificanti, fotografie e storie commoventi, trasporti emozionali laceranti che durano meno di uno yogurt sotto al sole.
Ridicolizzare e compatire, i due ingredienti per la dieta social ideale.
Con questo voglio dire che Orsi danzanti è figlio dei social network? No. Più probabile che siano fratellastri, figli di stessa madre, quale che sia non lo so, forse è l’aria inquinata che respiriamo.
È solo la mia teoria, di una letteratura non-fiction che si adatta al ritmo dei social network, al rumore delle voci che si sovrappongono senza sosta, ormai tutte prive di contenuto, di valenza, quando tutti parlano, parlare diventa inutile, anche ascoltare diventa inutile, tutti diventano inutili.
Ho letto il libro grazie a te, e mi è piaciuto. Ma: non ho avvertito quel tono di derisione e scherno di cui parli, né nei confronti degli zingari, né nei confronti dei cosiddetti nostalgici. Così come i ritratti delle persone non mi hanno fatto sghignazzare. Anzi. Per fare un esempio, mi pare che Szablowski descriva con umanità e tenera partecipazione la diseredata polacca che vive come una senzatetto alla stazione di Londra (lei sì derisa con cattiveria dai suoi vicini quando è partita, in tutta la sua semplicità e ingenuità, per Strasburgo per ottenere giustizia).
Che poi la metafora degli orsi danzanti che faticano ad abituarsi al nuovo status di orsi liberi (di fondo non smettono mai di danzare), e la difficoltà di coloro che dagli ex paesi dell’Est hanno dovuto affrontare la transizione verso la ritrovata libertà, e in che misura sia davvero libertà quella del nostro sistema capitalista a economia di mercato, possa essere un argomento trito e ritrito sul quale si potrebbe aprire una discussione lunga e tormentosa concordo con te.
Il pregio, secondo me, di Szablowski è di aver raccontato storie semplici, ma significative, di una umanità variegata, dolente e inquieta, dove c’è chi si adatta al nuovo e chi fatica a farlo: chi trasforma piccoli villaggi in parchi a tema ispirandosi a Tolkien per attirare turisti, chi traffica con auto usate corrompendo doganieri e arricchendosi a dismisura, chi organizza tour a Belgrado sulle orme di Karadzic, commercializzando la figura di un criminale di guerra (un appunto: nel libro a pag.224 lo definisce sbrigativamente presidente della Repubblica Serba, che invece era Milosevic, mentre lui era presidente della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina) e c’è invece chi rimpiange Stalin. In ogni caso Grazie per la segnalazione, amo molto il genere dei reportage letterari, a partire da un altro polacco, grandissimo, che è Kapuscinki.
Ciao Marina.
Capisco la tua lettura e penso sia quella della maggioranza dei lettori, considerato il successo che ha avuto il libro.
Certo, è opposta alla mia, dove io ho avuto il sentore di freak show, tu hai trovato le storie semplici e significative e questo cambia tutto.
Forse con le storie semplici il confine tra umanità e artificio è sfumato, forse è il piede col quale si è scesi dal letto, o forse si è proprio fatto più difficile il tempo per le storie, ogni storia. Non lo so, però mi sembra una cosa buona che a te sia piaciuto.