«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
TRILOGIA DELLA GUERRA
Agustín Fernández Mallo
Traduzione di Silvia Lavina
Utopia 2022
Agustín Mallo è autore lungamente atteso da un (presumo esiguo) numero di persone dopo che Il sogno della Nocilla è finito presto tra i fuori catalogo come primo volume di una trilogia mai comparsa in Italia.
Utopia fa la cosa giusta e lo riporta in Italia, con grande giubilo e riconoscenza di quel gruppo di pareidolici. Mallo da par suo complica le cose ai pareidolici scomponendo i tratti della sua narrativa e trasfigurandola, rendendola irriconoscibile, deformandola fino a renderla degenere, lasciandola scivolare su di un piano obliquo fino a immergersi in una palude di contemporaneità e finzione, non scrivo “realismo magico” perché ho una antipatia per l’espressione “realismo magico”, esasperandone entrambi gli estremi, estrema contemporaneità, estrema finzione, e mano d’autore in primo piano che intreccia grosse corde di canapa in una maglia grossolana. La realtà è un intreccio grossolano di frammenti di storie vissute e di storie immaginate.
Trilogia della guerra è opera acefala e angosciata che sconta il decennio trascorso dai giorni pirotecnici della Nocilla. Dalla fine degli anni 2000 alla fine degli anni 2010 una vita è trascorsa, un mondo è cambiato, nessuno è rimasto immune, nessuno si è veramente salvato, nessun supersite alla carneficina. Trilogia della guerra non è un resoconto o una testimonianza, è un testamento della guerra sotterranea del decennio che dalla fine degli anni 2000 arriva fino al 2019 (il libro è del 2017) dal punto di vista di un osservatore qualsiasi, uno qualunque che è finito sotto, sommerso, annegato, soffocato, annichilito, senza più niente da dire, senza più sapere cosa fare, cosa sia giusto e cosa sbagliato, cosa porti alla salvezza e cosa condanni. Uno come tanti che non sa darsi spiegazione di cosa gli sia successo.
Trilogia della guerra è libro lungo, volutamente lungo e informe, serpentino, cunicolare, in cui Mallo borbotta in un fraseggio fitto e aritmico, monologa ininterrottamente tra salti di scena e di tempo e di personaggi che si muovono in circolo tra le loro storie immaginarie e tra luoghi senza più storia, per ricapitolarsi sempre e comunque in un’unica voce confusa, un unico personaggio, un solo creatore, aggressore e aggredito, che getta frammenti di storie, li annoda confusamente e spera di ricavarne un senso che non esiste. Per dire di cosa parli Trilogia della guerra bisogna improvvisare un’interpretazione senza ragion d’essere, del tutto arbitraria. Forse parla dei sogni e della realtà che si compenetrano gli uni con l’altra, o parla delle storie che si inseguono, dei personaggi, come delle vite, che si incrociano continuamente agli angoli delle strade senza riconoscersi, avvertendo soltanto una strana sensazione familiare di stantio, come l’odore di un proprio indumento che non si indossa da lungo tempo. Oppure parla del giorno e della notte che si alternano nella vita delle persone, per anni si vive di giorno e per anni si vive di notte, sembrano vite di persone diverse, sono la normalità di ogni vita. Oppure semplicemente arranca tra i ruderi distrutti della narrativa contemporanea, si trascina nella polvere del tempo, esangue, anemico, senza più sangue buono che scorre, privo di forze, privo di ardore, privo di follia generatrice, solo pesante di verità svelate. Forse semplicemente non parla di niente, è puro testamento della sconfitta.
Trilogia della guerra non è il libro che ci si aspettava di leggere da Agustín Mallo eppure è il libro che, a posteriori, sembra che solo Mallo avrebbe potuto scrivere. Parla di una guerra che abbiamo perso ma non vogliamo ammetterlo apertamente, parla di vittime e di carnefici che non vogliamo riconoscere perché chiunque è al contempo vittima e carnefice di quella guerra. Parla non dal punto di vista dello storico che ricostruisce, ma del superstite che non comprende cosa sia successo, se è stato aggressore o aggredito, come sia potuto succedere, quali siano le sue colpe, prima tra tutte quella di essere sopravvissuto, poi quella di mentire.
Per questo farfuglia dialoghi, produce pagine e pagine di un borbottio che talvolta deraglia nel delirio a occhi aperti e che ha tutto l’aspetto del dialogo di uno che stia parlando da solo, in parte confondendosi, in parte ricordando, in parte inventando, poi ripetendo da capo con qualche variazione, nel tentativo di trovare un ordine al caos dei ricordi, nel tentativo di dare dignità letteraria alla banalità degli anni trascorsi.
Ed è allora che ricorre a elementari sotterfugi autoriali come il narratore che si addormenta, si sveglia e sono passati anni, è cambiato luogo, è cambiato personaggio e il borbottio ricomincia, spaesato, sempre più perso in eventi che la voce non comprende e stretto in un presente che di volta in volta ha impellenze tali da non consentire il lusso di un passato o di un futuro. È la logica del superstite che non può guardare né indietro né avanti senza sentirsi un carnefice, vive il presente e gli è del tutto estraneo.
Ora una digressione superflua.
Come quei semi di piante scomparse che però ancora potrebbero germinare se le condizioni adatte si ripresentassero, la narrativa non fiorisce più, non cresce più, non germina più storie, è una pianta estinta da ritrovare solo negli archivi, che giace sepolta negli archivi, come quei semi antichi, col suo potenziale di storie che ora non trovano più le condizioni per essere raccontate perché nessuno riesce più a raccontare, nessuno riesce ad ascoltare, l’aridità del clima non consente la germinazione, forse se ne riparlerà tra qualche generazione, per noi c’è solo luce riflessa e sgomento.
Tra i grandi cambiamenti climatici del nostro tempo, insieme agli uragani, le ondate di calore e lo scioglimento dei ghiacci, andrebbe messo anche l’inaridirsi del suolo che produceva le narrazioni.
Oggi le uniche voci a farsi sentire sono quelle dei carnefici, il resto è rumore bianco. È rumore bianco la massa di libri che vengono pubblicati senza che abbiano alcunché da dire, nessuno in ascolto, nessuno in attesa, nessuna memoria, sono di carnefici le voci della televisione, tutte le voci della televisione, da lungo tempo sono soltanto di carnefici, chi più chi meno aggressivo o mellifluo ma ugualmente carnefici che latrano e infieriscono, alzano la polvere del tempo e danno linfa al rumore bianco, con i loro ghigni, le battute, le inquadrature, il tono di voce, la postura, gli abiti, le parole associate ai volti associati alle espressioni associate allo sguardo sguercio degli spettatori, microbi che con il loro agitarsi producono il ronzio costante di sottofondo. Sono carnefici anche quelli della stampa, dei notiziari, dei quotidiani, ci sono i carnefici dei titoli e degli editoriali, della cronaca e della posta alla redazione, sono tutte quante voci di carnefici, voci mandibolari contorte dal ghigno e dal terrore, che latrano sopra al brusio indistinto che, inesorabile, si mangia le narrazioni, a piccoli, impercettibili morsi di pulce finché tutte le storie dissolvono nel ronzio indistinto, ridotte a polvere, ridotte a melma gastrica, il rumore bianco ingerisce e digerisce ed evacua per farne altro rumore bianco, per autoalimentarsi e per alimentare i carnefici che latrano. Miliardi di batteri che operano un processo di decomposizione della storia, delle narrazioni, del tempo, attraverso le loro voci, attraverso i loro occhi, attraverso i loro pensieri, attraverso le mandibole, attraverso il loro agitarsi anelando a diventare carnefici anch’essi.
La radio resiste in alcune sue nicchie protette alla tempesta di polvere, a volte ci si stupisce che un mezzo arcaico come la trasmissione radiofonica continui a trovare spazio. Ci sono piccole oasi di resistenza tra le trasmissioni radiofoniche che solo un processo di sottrazione ha permesso di salvare. È una sapienza antica quella che sa che la privazione salva la ricchezza. L’assenza di sguardo diretto, l’alterità, la non condivisione, la non partecipazione, l’isolamento sensoriale sono gli ultimi bastioni delle storie, e della resistenza alla polvere del tempo, al rumore bianco, ai latrati dei carnefici. Potrebbero estinguersi in un respiro.
Anche la narrativa può fare come la radio, anche la narrativa è un rito arcaico, Kundera grande saggio lo disse molto tempo fa, anche lei splende per sottrazione e può cercare di salvarsi in oasi isolate in mezzo al deserto di polvere, pozze effimere che permettono a pochi semi e a poche storie di germinare ancora. Per tutti gli altri semi e storie non rimane che disidratarsi, entrare in uno stato di sospensione della vita e attendere a tempo indefinito il succedersi delle generazioni, degli eventi.
Non è compito nostro salvare la narrativa.
Non è compito degli scrittori contemporanei.
Loro non possono nulla, come i turisti oggi in nessun caso possono rivivere lo spirito dell’esplorazione ma soltanto distruggere i luoghi e la loro storia, ugualmente gli scrittori contemporanei in nessun caso possono ritrovare l’arte del narrare, ma soltanto distruggerla e distruggerne la memoria. Come i luoghi potrebbero rinascere senza più occhi e corpi e voci di turisti a distruggerli, così le narrazioni potrebbero germinare ancora senza più parole e pagine e sguardi a prosciugarle.
O invece è compito nostro?
Riprendo Mallo.
Sono convinto che, quando qualcuno scompare dalle nostre vite, a causa della morte o di un semplice abbandono, lo sostituiamo con una qualche parte del nostro corpo, un organo che si converte immediatamente nella persona scomparsa. Mio padre, per esempio, è la mia prostata. E così, a mano a mano che passano gli anni, dopo relazioni naufragate e la scomparsa di familiari e amici, il nostro corpo smette di essere nostro per diventare la somma di tutte quelle persone che non ci sono più. Mia madre è le mie mani, in qualche modo è lei che regge i bicchieri, apre le porte, accende una sigaretta, riordina quei frammenti di radiografia. Barbara è le mie labbra, è ovvio, è lei che bacia quando io bacio. E accade lo stesso con gente scomparsa che abbiamo odiato, solo che in quel caso la identifichiamo con parti del nostro corpo non indispensabili, i capelli, le unghie, il vomito o quel bosco di cellule morte che ricopre l’epidermide. Insomma, alla fine della vita il nostro corpo è conquistato da tutte quelle persone che non ci sono più. Per questo, per egoismo, non vogliamo che la gente che stimiamo ci lasci o muoia: il nostro corpo diventa meno noi, diventa più loro; è la storia di un corpo conquistato da altri corpi attraverso la trappola dell’affetto.
Questo estratto compare verso la fine del libro ed è evidentemente Mallo che entra in scena e parla. Sta descrivendo che cos’è Trilogia della guerra, una sovrapposizione confusa di frammenti di persone che si accumula tanto più si sopravvive alla carneficina e si sostituisce agli organi vitali del superstite fino a che del superstite stesso non rimane più nulla di autentico, rimane una finzione, un patchwork di memorie distorte che mescolano realtà a fantasia, rimane una pluralità di voci e storie che non hanno vita propria ma solo si scompongono e si ricombinano a partire dall’unica voce che un tempo parlava. Il superstite non appartiene più a se stesso, il superstite è quella maglia grossolanamente intrecciata di ruvide corde di canapa. Questa è la guerra.
Trilogia della guerra non è gentile con l’editore e non lo è con il lettore. Utopia con questo libro scarta di lato rispetto alla sua precedente traiettoria e per questo a lei, a loro, vanno tutti gli incoraggiamenti possibili a resistere e proseguire. A te non ho altro da dirti se non citare la frase con cui si apre il libro: “Diamo per scontate così tante cose”.
‘sta roba della pareidolia mi mancava. Ottima osservazione e con Mallo ci sta tutta.
Uno degli scrittori più interessanti del panorama contemporaneo che si arrampica con prepotenza su quel ramo del postmoderno figliato da Sebold e del quale il maggior esponente mi sembrava fino ad ora Énard
Pareidolia, giusto! Ecco la parola che non mi veniva. Trilogia della guerra è opera pareidolica. Con Énard ho rapporto conflittuale. Zona l’ho molto apprezzato, poi molto cercato quando era introvabile e infine sono stato molto contento quando l’hanno ripubblicato recentemente. Lessi Bussola e lo trovai una insopportabile esibizione di erudizione. Non ho più letto Énard. Mi pare si sia detto bene dell’ultimo pubblicato in italiano.