2000battute

«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

Stalingrado – Vasilij Grossman

STALINGRADO
Vasilij Grossman
Traduzione di Claudia Zonghetti
Adelphi 2022

Di Stalingrado se ne è già parlato e se ne parla molto perché è un libro importante. Senza dubbio importante, per il testo, per la sua storia e per l’autore. È la prima edizione in italiano e anche per Adelphi, per quanto avvezza a pubblicare libri importanti, è un evento che merita di essere celebrato oltre la normale promozione editoriale.
Per una contestualizzazione dell’opera, incluso il rapporto di Stalingrado con il capolavoro di Grossman, Vita e destino, con Tolstoy, una sintesi della storia editoriale di Stalingrado, una sintesi biografica di Grossman e alcune condivisibili considerazioni critiche sul testo, rimando al commento di Francesco Cataluccio apparso su Doppiozero.

Al commento di Cataluccio aggiungo solo una precisazione che viene da una intervista alla traduttrice Claudia Zonghetti. Cataluccio nel suo commento cita una prima edizione del 1952 seguita da due versioni successive del 1954 e 1956, in realtà le versioni ritrovate in forma dattiloscritta sono varie, ognuna con tagli e aggiunte di diverso genere dovute alle richieste che Grossman ricevette dall’editore per adeguare il testo agli umori variabili dell’Unione Sovietica durante gli anni ’50. Questa disomogeneità ha evidentemente complicato il percorso verso la pubblicazione di versioni in traduzione. Nel 2019 appare in Gran Bretagna la prima traduzione in inglese di Robert ed Elizabeth Chandler a seguito di un lavoro di ricostruzione e collazione del testo sulla base delle versioni dattiloscritte. Per l’edizione italiana, Zonghetti ripercorre il lavoro dei Chandler sui dattiloscritti originali. Quello che leggiamo è quindi un testo che in tale forma unitaria non è stato scritto da Grossman, ma, come è evidente, non sappiamo né sapremo mai quale testo unitario Grossman avrebbe scritto in assenza delle influenze della politica sovietica. Forse la cosa migliore è pensare che senza l’influenza della politica sovietica probabilmente non esisterebbe l’opera stessa, che è profondamente orientata dalle convinzioni politiche di Grossman a sostegno dell’Unione Sovietica. Per chi fosse interessato, si trova online materiale nel quale Robert Chandler spiega il lavoro di ricostruzione del testo poi oggetto di traduzione.

Detto questo cosa rimane da dire? Qualcosa su questioni specifiche e poi su Zonghetti.

La prima è l’invito a pensare bene se sia il caso di proporre paralleli o conseguenti tra la pubblicazione di Stalingrado e la storia che si racconta e i fatti bellici recenti in Ucraina. Trovare parentele a tutti i costi tra fatti lontani e oggetti indipendenti è un veleno che alcuni bevono con gran gioia e in certi contesti folkloristici trovano anche un certo seguito, ma il fatto che riescano a provocare rumore non li rende meno privi di senso. Leggere Stalingrado non permette di trovare spiegazioni a quanto succede ora né svela motivazioni altrimenti inscrutabili o fornisce chiavi di lettura. Non rende neppure migliori, come esseri umani e come persone senzienti. Ci si rende invece peggiori a sostenere che vi possa essere un qualche nesso tra libro, lettori e fatti.
Purtroppo credo che parte del successo editoriale attuale del libro sia invece trainato dai fatti bellici. Va bene per l’editore e, qualunque sia la ragione, acquistare Stalingrado non fa certo male, però, con le dovute cautele, ricorda un po’ le zampe dell’attualità politica che premono su un libro, come avvenne negli anni ’50.

Un’altra questione che merita di essere ricordata è la radicata e ultrapessima abitudine di vari commentatori e organi di stampa di agitarsi in modo scomposto blaterando “ca-po-la-vo-ro” solo per farsi notare. Stalingrado non è un capolavoro della letteratura. È un libro importante, è un testo con parti di indubbio valore letterario ma anche aspetti criticabili e una qualità letteraria non omogenea. Usare senza ritegno la qualifica di capolavoro è cosa ottusa che banalizza il valore.

Purtroppo questa pessima prassi va di pari passo con quanto accade sempre con i libri lunghi e importanti: il numero di quanti intervengono nel dibattito e forniscono opinioni è molto maggiore di quanti li leggono realmente (purtroppo va specificato “realmente” visto che per alcuni leggerne una frazione o dare una scorsa complessiva equivale a leggere l’opera). Quindi, tra desiderio di farsi notare mentre si parla di opere importanti e necessità di fare caciara per nascondere il fatto di non avere realmente letto il testo, il risultato del dibattito non è sempre all’altezza di quanto si desidererebbe. Il mondo è faticoso, spesso inutilmente, per questo ignorare gli urlatori al capolavoro è buona cosa, secondo me.

Infine alcune questioni riguardanti il testo. La prima è la lingua di Zonghetti attraverso la quale leggiamo Stalingrado di Grossman, perché talvolta si dimentica che il valore di una traduzione non risiede soltanto nella qualità tecnica della traduzione, ma sta soprattutto nel piacere che la lettura del testo offre al lettore. Una cattiva traduzione può certamente rovinare un’opera restituendo un testo che non genera piacere nella lettura. Questo è il caso peggiore. Diversamente, una traduzione che genera piacere nella lettura non può essere una cattiva traduzione perché solo l’effetto della lettura conta per un lettore. La fedeltà al testo originale, aspetti linguistici, lessicali e stilistici sono rilevanti per un’analisi tecnica del lavoro di traduzione, ma non possono mai sostituirsi al piacere della lettura che rimane sempre il giudice ultimo. Serve questa precisazione perché talvolta i tecnicismi tendono a prevalere sul piacere nel valutare una traduzione e io credo sia sbagliato.

Com’è quindi la lingua di Claudia Zonghetti in Stalingrado? Grossman è magistrale nelle lunghe descrizioni naturalistiche, fluviali nella successione di sguardi senza mai essere ridondante o retorico. Viceversa non è un maestro dei dialoghi, ha vette subimi in alcuni momenti, ma spesso sono didascalici e in Stalingrado questo è evidente a mio parere.

In un villaggio Krymov aveva visto la festa di saluto a un vecchio che quarant’anni prima era stato artigliere della Marina, e che ora aveva deciso di lasciare la famiglia e un frutteto ubertoso per imbracciare il fucile e andare nei boschi. Aveva visto parenti e amici inconsolabili, ma convinti che il sole avrebbe continuato a splendere sulla terra; aveva visto la vecchia moglie che salutava in lacrime il marito e diceva che la fine del mondo era vicina quanto quella dei suoi giorni, ma intanto impastava vareniki e cuoceva biscotti ai semi di papavero come se il mondo fosse ancora in pace. Aveva visto gente che rideva e piangeva insieme, e gente che prima rideva e poi di colpo cominciava a piangere. Certe volte nella retorica più altisonante e accalorata aveva colto un’omertà scaltra, certe altre la slealtà era manifesta: «Quello che è stato è stato, vediamo cosa sarà», ripeteva qualcuno. E aveva visto uomini forti e di grande talento che lavoravano sodo e sapevano quanto valesse vivere su quella terra ricca, e che erano pronti a difendere con il sangue e l’ostinazione ciò che avevano ottenuto con il lavoro.

La lingua di Zonghetti nelle lunghe parti descrittive (tutta la prima parte del testo, ad esempio) è ariosa e si adatta al movimento ondulatorio delle descrizioni grossmaniane; il suo è uno stile elegante ed accogliente che non strappa mai il ritmo, come deve essere per accompagnare nella lettura di quasi 900 pagine che si affronta sul passo, non nello sprint. È una questione di respiro, la lingua deve accordare il respiro del lettore con il respiro del testo e questo fa l’italiano morbido di Zonghetti. Non sentirete nessuno nella vita quotidiana parlare con la voce di Stalingrado, ma non è segno di artificiosità, la lingua di un’opera letteraria è espressione artistica non una riproduzione delle voci di strada quindi non è tanto il realismo a essere un criterio di merito quanto il piacere di lettura, come già si diceva in precedenza. Si prova piacere nel leggere lo Stalingrado di Zonghetti? Questo occorre chiedersi.

Io rispondo di sì, è stato un grande piacere, la sua è una magnifica traduzione che, soprattutto nella prima parte, quella di maggior valore letterario, io credo, restituisce il senso di epica antiretorica del lungo, apparentemente infinito, ripiegamento dell’esercito sovietico verso est, incalzato dall’ombra scura nazista che avanza, in direzione del confine orientale della Russia, verso il Don, poi il Volga, verso la steppa kazaka, verso il nulla. In questa prima parte i tedeschi sono una presenza opprimente costante ma invisibile, da qui il senso messianico di piaga che si abbatte sul popolo sovietico, sull’esercito di popolo dell’Unione Sovietica che soffre, si ritira piegato dalla violenza primitiva, ma mai domo, mai vinto, sa che resisterà e alla fine prevarrà sul male. Altri grandi scrittori hanno usato una visione simile di deserto che nasconde un male invisibile ma onnipresente e minaccioso e di viaggio di sofferenza. È una metafora potente e antica come l’uomo. In questo sta anche l’anima di Stalingrado che è un’opera in gloria del popolo sovietico e dell’Armata Rossa in quanto esercito di popolo, di un popolo tutto, dall’intellettuale all’operaio, dal generale al soldato semplice, uniti nella lotta mortale contro l’invasore, contro la barbarie, contro la violenza, contro il male. Questo è Stalingrado e tutta la prima parte è un pezzo di grande letteratura restituito magistralmente da Claudia Zonghetti.

Le successive due parti non sono allo stesso livello letterario. Naturalmente l’assedio finale alla stazione e molte parti della battaglia di Stalingrado alzano il livello emozionale del testo e l’epica diventa eroica pur con poche concessioni alla retorica (la più evidente la scena finale dell’assedio della stazione), ma quella magia delle lunghe descrizioni naturalistiche che sembrano sospingere i soldati in ritirata come una corrente dello spirito e un obbligo trascendente del destino, si perde per lasciare più spazio agli eventi e alla loro concatenazione, la storia si frammenta. In un caso la caduta di stile e qualità si fa evidente: quando Grossman fa entrare i personaggi tedeschi. Sono ritratti in modo grossolano, caricature da manifesti della propaganda, sono un corpo estraneo antiletterario. Considerato il tipo di opera e il contesto nel quale viene scritto, non sorprende che i nemici siano ritratti e che lo siano in quel modo, ma ci sono forzature che stonano, in particolare nel finale.

Ancora la maestria descrittiva di Grossman e la lingua morbida e accogliente di Zonghetti, questa volta dal finale:

Come fortezze lugubri, gli edifici neri delle fabbriche torreggiavano sullo sfondo. Dall’Oltrevolga giungeva lento un boato che scuoteva il cielo, l’acqua e la terra: il fuoco dell’artiglieria sovietica. Il blu di quella notte d’autunno era intessuto di migliaia di fili rossi: i proiettili traccianti che, ora spaiati ora in sciami ronzanti, si conficcavano come piccole lance nella terra o nei muri dei palazzi, oppure si distendevano morbidi su metà della volta celeste. I bombardieri rombavano sordi, pesanti, disegnando i loro cerchi sopra Stalingrado. Fasci di fili colorati rossi e verdi trafiggevano l’aria di scie che si allargavano man mano in direzione degli aerei: i cannoni semiautomatici della contraerea che si incrociavano, bizzarri, con le analoghe scie dei proiettili traccianti con cui i bombardieri cercavano di colpirli dal cielo.

Zonghetti non alza mai la voce, neanche quando descrive un bombardamento dopo 800 pagine di testo. Ci vuole molta eleganza nello stile per riuscirci così bene.

Un ultimo passaggio illuminante, che serve per comprendere lo spirito e l’epica di Stalingrado:

Nessuno avrebbe più incontrato uomini del battaglione di Filjaškin, né in vita, né in questa storia. Morirono tutti. Eppure, quelle persone di cui ora per buona parte nemmeno ricordiamo i nomi continuarono a vivere per tutta la battaglia di Stalingrado, capifila di una leggenda che non ha bisogno di parole e che si tramanda di cuore in cuore.

Stalingrado non è l’Iliade sovietica, non è la storia del tempo degli Eroi e la costruzione del loro mito, non segue la tradizione mitologica occidentale. È la costruzione del mito del popolo sovietico, ha una natura orientale in questo senso, degli eroi non si ricorda il nome, ma l’unione che ha consentito gesta eroiche, sacrifici eroici. È il destino del popolo sovietico a essere eroico grazie al battaglione che non si è ritirato al prezzo della vita di tutti i suoi componenti, senza distinzione di grado, cultura e provenienza, è l’unione degli operai delle fabbriche che sono rimasti al loro posto anche sotto le bombe a essere eroica, quella delle famiglie che non si sono disgregate. Il messaggio è di propaganda politica ma anche di terra, di radici culturali, di distanze e tempi infiniti. È un sentire che a noi può suonare estraneo, forse lo è sempre stato, ma è imprescindibile in Stalingrado.

Pur con i suoi limiti letterari, Stalingrado è un grande libro, va dato merito ad Adelphi per averlo reso disponibile al lettore italiano e per la cura editoriale che traspare evidente, troppo spesso dimenticata, e va dato merito a Claudia Zonghetti per il lavoro di traduzione e per la cura, affettuosa quasi mi verrebbe da dire, con cui tratta la lingua letteraria, che è qualcosa di più di uno strumento da maneggiare con abilità, un’entità morale, un concetto spirituale anche.

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Questa voce è stata pubblicata il 15 giugno 2022 da in Adelphi, Autori, Editori, Grossman, Vasilij con tag , , , .

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