«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa
LA FIABA NUCLEARE DELL’UOMO BAMBINO
Hamid Ismailov
Traduzione di Nadia Cicognini
Utopia 2021
Esiste una differenza in particolare tra tutte le letterature europee, che è come dire “la letteratura”, e le altre, molte delle altre anche se non proprio tutte, che riemerge di continuo, da sempre, caparbia e a forza di riemergere ce ne dimentichiamo pure che esiste e magari finiamo per non accorgerci nemmeno quando ci passa davanti agli occhi ululando, concentrati invece come siamo sempre sui personaggi, cosa fanno, cosa dicono, chi vive, chi muore, chi ammazza, chi ama e così via, in questo eterno rincorrere la nostra ombra.
La differenza sta negli spazi.
La letteratura europea è letteratura di piccoli spazi, a volte claustrofobici. Mettiamoci anche tutta la letteratura ebraica nella categoria della letteratura dei piccoli spazi, spesso claustrofobici nel caso ebraico. E lo stesso anche tutte le letterature di diretta ispirazione europea, come la letteratura americana metropolitana, quella argentina platense, per via meno diretta ma per tratti in comune quella giapponese. Quella indiana e quella cinese fanno storia a sé, sono isole letterarie, anche se pure per loro di regola valgono i piccoli spazi.
Il motivo è semplice, in Europa i grandi spazi sono terminati a partire dall’Alto Medioevo, se non addirittura prima (forse la peste del ‘400 li ripristinò, ma di questo non ho certezza), e da allora quasi nessuno ha più saputo veramente cosa fossero le distanze infinite, i grandi nulla, di certo non gli scrittori che la letteratura ha tramandato.
Eppure la letteratura ha sempre avuto un debole per gli spazi, soprattutto quelli i cui confini sono indistinguibili. Se ci pensi, gli italiani con le loro eterne storie del paesello e della città sono quanto di meglio si è potuto fare in una geografia e una storia sociale che ben presto ha ridotto le distanze. Eppure, sempre al paesello si è tornati con i racconti, l’abbandono del paesello, il ritorno al paesello, il rapporto tra il paesello e la città, tutta questione di spazi che si allargano e restringono. Gli scrittori italiani, ma direi anche europei, non hanno fatto che giocare con l’elastico degli spazi. Piccoli spazi, tuttavia, al più si raggiungevano le dimensioni di una brughiera inglese, di una catena montuosa alpina, o di una fitta foresta tedesca. Niente di nemmeno paragonabile con i veri grandi spazi.
Ci sono voluti i migliori talenti letterari europei per ricreare i grandi spazi laddove non esistevano, una Fortezza Bassani immersa nell’eternità dell’attesa diventa uno spazio infinito, lo stesso una passeggiata tra le alpi svizzere, una giornata descritta come un unico flusso di coscienza. Tutti artifici letterari prodigiosi, ma pur sempre artifici.
Sono le altre letterature quelle che raccontano i grandi spazi. I veri grandi spazi. E i veri grandi spazi, pur con tutte le differenze climatiche, orografiche, geografiche, di costumi, fauna e flora, si assomigliano sempre molto, almeno agli occhi europei, perché tutti quanti condividono ciò che l’europeo non conosce affatto, l’infinito terrestre.
Le letterature dei grandi spazi sono sempre narrazione dell’isolamento, quello che non c’è quasi mai nelle storie europee che conoscono solitudine, solitudini perfino abissali, ma non vero isolamento.
È questa la differenza incolmabile tra queste due letterature, quella che conosce l’isolamento estremo e quella che non ha esperienza dell’isolamento, ma solo della solitudine. Questa differenza cambia tutto quanto. Forse spiega anche molto più di quanto si creda delle società e dei valori, forse anche dei destini, ma questa è solo speculazione.
La fiaba nucleare dell’uomo bambino è per l’appunto una fiaba moderna e allo stesso tempo antica e nasce da un grande spazio, la steppa kazaka in questo caso.
Non serve che io anticipi nulla della storia, non serve e non è il caso, basta sapere che ciò che racconta nasce, vive e muore in uno spazio senza confini e ha un rapporto profondo con l’isolamento estremo. I personaggi della fiaba intrecciano molte storie tra di loro, alcune sembrano vere, altre sembrano soltanto racconti di fiaba, intrecciano le loro vite con eventi esterni al loro mondo privo di confini e che non capiscono, noi invece sì e sornioni ci viene da sorridere per questo pensando Ah! Ecco spiegato tutto quanto!, ma in realtà ci sbagliamo perché immaginiamo la nostra solita storia dei piccoli spazi e diamo una spiegazione basata sul mondo che noi conosciamo, dove tutto è ravvicinato. Non ci accorgiamo del resto della fiaba, dello sguardo di chi la racconta che invece è pieno del grande spazio, che a noi fa l’impressione di magia, ma è solo mancanza di comprensione.
In fondo, una fiaba dagli spazi infiniti della steppa potrebbe benissimo essere trasformata con pochi adattamenti in una fiaba da una mesa nordamericana, mancherebbero i cammelli, ma lupi, sciacalli, aquile e asini sarebbero gli stessi, uguale sarebbe una linea ferroviaria che taglia il deserto e i minuscoli villaggi di qualche casa attorno alle stazioni in mezzo al nulla. Ugualmente la fiaba potrebbe essere raccontata dai boschi del Canada, dalla tundra siberiana, dalla pampa argentina, da un altopiano andino, da una savana africana, perfino da una nave in mezzo all’oceano. Da qualunque grande spazio si potrebbe raccontare una fiaba nucleare dell’uomo bambino modificando solo qualche dettaglio, magari non sarebbe più nucleare, ma non cambierebbe di molto. Rimarrebbe sempre una fiaba di un bambino che si fa uomo e perde l’innocenza di bambino in uno spazio così enorme e isolato che forse a noi europei verrebbe più facile a pensare alla Luna invece che alla Terra e non riusciremmo comunque a capirne il significato.
Per questo poi diremmo che ci è parsa una letteratura esotica, stranamente semplice, un modo di raccontare antico ma che non abbiamo mai sentito, quindi forse così tanto antico che precede tutto quanto abbiamo potuto sentire, ma anche questa spiegazione non ci soddisferebbe, allora diremmo che sono kazaki i personaggi, senza sapere bene cosa vogliamo dire con questo, avremmo potuto dire che erano indiani americani o africani o indios e non sarebbe cambiato niente, quindi devieremmo sui sovietici e il poligono delle bombe nucleari, ecco quello lo abbiamo sentito, è storia nota, diremmo, è la storia di un bambino che vive vicino a dove fanno scoppiare le bombe e quindi per forza finisce male la storia, è una fiaba triste per colpa degli uomini e delle loro bombe, e di nuovo avremmo ristretto tutto a un piccolo spazio.
Invece io voglio pensare che negli occhi di chi sa cosa siano i grandi spazi la tristezza della fiaba si dissolva nell’infinito della steppa, delle foreste, della tundra, della savana, del deserto e ognuno, ogni storia, non sia altro che un puntino impercettibile che si muove in quell’infinito soltanto per sopravvivere, fino a che gli è possibile, come il lupo solitario de La fiaba nucleare dell’uomo bambino.
Bellissima recensione. Ho letto e amato questo romanzo, particolare e emozionante come pochi.
Si ritaglia un piccolo spazio nella memoria e lo riempie.
Sì, è uno di quelli che restano lì, non sfuma via