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«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

La morte del Vazir-Muchtar – Jurij Tynjanov

La morte del Vazir-Muchtar

LA MORTE DEL VAZIR-MUCHTAR – Sangue e diplomazia in Persia
Jurij Tynjanov
Traduzione di Giuliana Raspi
Edizioni Settecolori

Settecolori, rinnovata casa editrice dall’apprezzabile veste grafica di gusto neo-goth, ripubblica un’opera che era apparsa molti decenni fa in traduzione italiana, poi scomparsa, destino comune a gran parte della produzione letteraria russa del Novecento. Il testo è del 1929, la traduzione di Giuliana Raspi è quella originale, la postfazione di Armando Torno invece è nuova.

Il libro ha tratti di notevolissimo pregio letterario mescolati a momenti di furia creativa/distruttiva avanguardista e lunghe traversate nella pura teatralità della prosa russa fatta di dialoghi fitti e inconcludenti, decine di personaggi dall’alone surreale che rimuginano di sfumature di senso mentre loro stessi e ogni cosa intorno va in malora, il tutto a creare l’inimitabile suono brulicante di piccole voci e grandi eccessi della narrativa russa, esasperato e strappato in ogni direzione in particolare nel Novecento, fucina di geni letterari scatenati. Jurij Tynjanov è un genio letterario scatenato, senza dubbio, di non semplice digestione tuttavia, come molti degli scrittori dell’epoca sovietica e forse come tutti i russi, proprio perché con loro l’eccesso è il canone, la folla di voci la cornice e lo sfondo.

Come era terribile la vita di coloro che si trasformavano, la vita di quelli degli anni Venti, il sangue dei quali si era trasferito altrove!
Sentivano su di sé gli esperimenti diretti da una mano estranea, le dita della quale erano ferme.
Il tempo fermentava.
Il tempo fermentava sempre nel sangue, in ogni periodo c’è una particolare forma di fermentazione.
Negli anni Venti ci fu una fermentazione simile a quella del vino: Puškin.
Griboedov fu una fermentazione dell’aceto.
E poi, cominciando da Lermontov, si propagò, come il suono di una chitarra, attraverso le parole ed il sangue, un fermento ammuffito.
L’odore dei profumi più raffinati si fissa con la decomposizione; nei rifiuti (l’ambra è il rifiuto di un animale marino) anche l’odore più sottile è più di ogni altro vicino alla puzza.
Ecco: già ai nostri giorni i poeti si sono dimenticati persino dei profumi, e vendono gli stessi rifiuti come fossero aromi.

Griboedov è il personaggio principale de La morte del Vazir-Muchtar e noi, guarda caso, viviamo negli anni Venti.

La narrazione si svolge tra la Russia e la Persia, Pietroburgo e Mosca da una parte, Tabriz e Tehran dall’altra, le confabulazioni del palazzo dello Zar e quelle del palazzo dello Scià, l’alta società russa e persiana unite dai dialoghi incessanti, insensati e traditori. Griboedov, prima emissario russo di ritorno dalla Persia, poi ambasciatore della Russia presso lo Scià è una cicala che frinisce per una stagione soltanto muovendosi nelle trame e nelle alcove come quell’insetto tra le fessure della corteccia degli alberi. Accenna, abbozza, si muove con la compostezza misurata del diplomatico e la scaltrezza del baro in mezzo a zanne e pance, corti principesche e harem ai quali l’ineffabile cinismo russo degna sia gli onori regali, sia il disprezzo del ridicolo.

Quella di Tynjanov è una narrazione dalla teatralità cadenzata, talvolta scandita dalle note di un ballo di corte, in altri momenti sciabolante, sempre immersa nel brusio continuo del rimuginio degli interpreti, intenti a dire e a ritirare quanto detto, a comportarsi seguendo la tattica del momento, circondati però dal frastuono degli eventi epocali, da grandi imperi che il secolo porta allo scontro per effetto del scivolamento su piani inclinati, da voci di guerra che echeggiano senza capire da dove provengano, da una corrente di irrealtà che trascina ogni cosa e confonde la mente di chiunque.

I personaggi di Tynjanov mancano completamente di lucidità, di pensiero critico, di alterità, eppure in ogni discorso sembrano mostrare, e Griboedov più di ogni altro, proprio lucidità, pensiero critico e alterità. È questa miscela di contraddizioni, che si affaccia sul bordo del destino terribile, uno degli ingredienti della inimitabile narrativa russa e ciò che fa grande La morte del Vazir-Muchtar. È anche ciò che lo può rendere indigesto.

Non c’erano persone più vecchie sulla Terra, né terze persone, nessuno vegliava su di loro.
A nessuno era stato detto:
«Dormite. Io non sputerò su di voi».
I bambini appestati gemevano con vocine sottili vicino a Humry e l’italiano senza patria, Martinengo, in quarantena, beveva il suo decimo bicchierino di vodka.
Il delitto che aveva compiuto dieci anni prima e scontato con dieci anni di fatiche e di miseria si era compiuto ieri. Egli non l’aveva scampata.
Perché non c’era potere sulla Terra e il tempo andava avanti.
Allora Griboedov ululò lamentosamente come un cane.
Allora il ministro plenipotenziario, attratto dal potere, si attaccò ad una bianca, morbida, mano di fanciulla, come se in quella soltanto fosse la salvezza, come se quella sola, la morbida mano, potesse sempre sollevare, proteggere, indicare.
Come se essa sola fosse il potere.

Griboedov è un grande personaggio letterario, giallastro, inquieto, subdolo e fragile, tormentato e cinico, illuso dai suoi tatticismi e dalla sete di potere, potere che tra l’altro aleggia come un odore pungente ma non ha una forma precisa. Si percepisce, talvolta con intensità, si riconoscono subito gli uomini che lo detengono, letali, distruttivi, smemorati se non proprio scivolati nella demenza, certamente incapaci di riconoscenza. Eppure il potere in quanto tale non ha alcuna forma propria, né corpo, il potere ondeggia e scivola nelle pieghe del tempo, da questo a quello, da un luogo a un altro, si deposita di volta in volta in mani differenti e quelle mani, appena forti del potere, cominciano a far scorrere il sangue, a fiumi, a far rotolare teste, a mozzare arti, a sventrare uteri. Il potere de La morte del Vazir-Muchtar ha la forma della noia, per quanto raramente i due termini di potere e noia vengano sovrapposti.

La noia era dovunque. Gli Stati venivano costruiti e guarniti come le stanze, per riempire la noia. Le guerre derivavano da essa ed anche le rappresentazioni teatrali. Gli uomini si battevano in duelli, facevano i ruffiani, contaminavano tutto, a causa della noia.

La morte del Vazir-Muchtar sarà per alcuni un vortice inebriante, per altri una nebbia impenetrabile, ma Jurij Tynjanov conosce l’arte di sferrare la sciabolata improvvisa all’ordine delle parole, quella che distrugge la consuetudine delle pagine e che deforma la spazialità della narrazione.

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Questa voce è stata pubblicata il 29 luglio 2022 da in Autori, Editori, Settecolori, Tynjanov, Jurij con tag , , , .

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