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«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

Come un’onda che sale e che scende – William T. Vollmann

COME UN’ONDA CHE SALE E CHE SCENDE – Pensieri su violenza, libertà e misure di emergenza
William T. Vollmann
Traduzione di Gianni Pannofino
Minimum Fax 2022

È Vollmann, se lo conosci sei preparato a quello che ti può attendere e pari e schivi, ma se non lo conosci ti arriva la scarpata dritta in faccia. Dovrebbero mettere le etichette come sugli acidi… maneggiare con cura… non ingerire… pericolo,,, tenere lontano dalla portata dei bambini… e di chi ha tendenza a lagnarsi, io aggiungerei.

Questo per un motivo preciso e che deve essere ben chiaro: con Vollmann la consueta, qualunquista locuzione da mezzacalzetta “pensare in grande” assume un significato tutto speciale, vollmaniano inimmaginabile. Vollmann non “pensa in grande” come comunemente s’intende, Vollmann pensa fuori scala, per Vollmann “grande” ha dimensioni astronomiche, a lui l’eccesso è sconosciuto e la cura del limite la lascia ai miserevoli lettori.

Le conseguenze sono inevitabilmente estreme. La grandezza di scrittore è estrema, i fatti, luoghi e situazioni che descrive come giornalista sono estremi, il pericolo che corre è estremo. Le dimensioni sono torrentizie, la prosa travalica i confini della ridondanza, la dimensione del suo egocentrismo è assoluta e tracima dalle pagine, la noia che riesce a produrre è estrema e capace di schiantare qualunque resistenza.

Attenzione però a non cadere nella trappola qualunquista da mezzacalzetta. È Vollmann, niente avviene per caso, niente sfugge al suo controllo, incluso il fatto che non di rado, anzi ben più che non di rado, i 2/3 delle pagine delle sue opere torrentizie sono di una noia tale da renderle illeggibili, noia che apposta somministra al lettore, e che nel restante 1/3 cerchi di produrre lo shock, di solito riuscendoci. Il risultato è terrificante per chi è abituato alla propria comfort zone dalla forma di un pigiama sfatto.

Nel caso di Come un’onda che sale e che scende i confini dell’estremo erano estremi perfino per le abitudini di Vollmann considerato che l’opera originale consta di sette volumi e non so quante migliaia di pagine. Un’opera chiaramente non destinata alla lettura, ma con altri scopi, meritevoli di un ragionamento.

L’edizione di Minimum Fax è una necessariamente drastica riduzione che riporta le dimensioni a un migliaio scarso di pagine, un tomo notevole ma nella scala del possibile per un oggetto destinato alla lettura. Eppure, anche con la riduzione editoriale, la regola del 2/3 noia e 1/3 shock si conserva intatta.

La cosa in qualche modo notevole è che Vollmann non solo ne è del tutto consapevole e consapevolmente artefice, ma lo dice pure, avverte il lettore che finirà come deve finire: la parte che lui chiama “metodologica”, ma che metodologica non è nel senso comune del termine, verrà infine saltata per dedicarsi alla parte “dei casi” e questa in effetti contiene casi, cioè lui che fa il giornalista in situazioni estreme, di estremo pericolo, di estrema violenza, di estrema malvagità umana.

In Come un’onda che sale e che scende, i 2/3 noia sono interminabili disquisizioni sulle armi, sulla moralità di detenerle, sui delinquenti che si incontrano a passeggiare di notte per le periferie delle città americane e sui neri che insultano le donne asiatiche (Vollmann ha una passione speciale per le asiatiche). Poi altre disquisizioni interminabili sui rivoluzionari, sul concetto di rivoluzione, sul modo di essere rivoluzionari, disquisizioni talmente ridondanti e circolari da sfiancare anche il più coriaceo dei lettori. Ovviamente tutto questo Vollman lo fa bene, sfruttando tutto il suo immenso talento di scrittore. Ad esempio, l’inizio è folgorante, oscuro, macabro e portatore di cupi presagi come solo Vollmann sa fare.

La morte è banale. La si osservi, si sottraggano i suoi modelli e le sue lezioni alla morte causata dalle armi, e il residuo così ottenuto ci mostrerà forse cos’è la violenza. Con questo pensiero in mente ho percorso i lunghi cunicoli delle catacombe di Parigi. Pareti di terra e pietra ricoperte di resti umani spesse quanto è lungo un femore: ossa gialle e marroni, ordinatamente disposte una sull’altra con le loro estremità sporgenti, simili a mattoni sformati, a ossuti sorrisi tramutati nel loro opposto, a gialle e stantie lumache di pastasciutta: cavità e teste di ossa promiscuamente a contatto, il loro punto centrale nell’ombra, tra due protuberanze gemelle servite un tempo a far ruotare altre ossa […]

Vollmann sa come inchiodare un lettore alle sue parole. Poi lo sfinisce con la noia di una interminabile ricostruzione delle vicende napoleoniche, Napoleone che parla ai soldati, Napoleone che viene nominato sergente per acclamazione, Napoleone il generale che abbatteva eserciti e con Vollmann abbatte anche i lettori.

A un certo punto si cede al tedio, gli si dà ragione e si passa ai casi, dove lo shock è servito a lettori però già ben preparati dalla interminabile premessa noiosa: qualunque sbudellamento o orrore umano è preferibile ad altre tre o quattrocento pagine di Napoleone che fa o dice cose.

La parte dei casi è tipicamente vollmaniana, per chi già lo conosce: lui che viaggia per i luoghi della Terra dove violenza, miseria, guerra, orrore, depravazione, disperazione e morte sono concentrate in misura maggiore e ci si ficca in mezzo, uscendone incredibilmente indenne. Vollmann non è un reporter tradizionale di quelli che cercano di farsi da parte e lasciano raccontare i fatti. Vollmann è l’interprete principale della storia e racconta di sé in quelle situazioni, tutto quanto viene descritto dei luoghi, fatti e persone è lo sfondo alla sua vicenda. Non si diventa Vollmann senza un egocentrismo privo di limiti.

Di Vollmann si può dire tutto e tutto il contrario, amarlo, odiarlo, amarlo e odiarlo, rifuggirlo o esserne affascinati, capirlo, non capirlo, maledirlo per la noia, qualunque opinione ha una ragione di essere. Un fatto che si fatica a mettere a fuoco è che esiste una dimensione estetica nascosta ma fondamentale nelle sue opere, tutte profondamente narcisistiche, da intendere in senso artistico non nel senso della normale mezzacalzetta che pensa di essere un genio. Un’opera letteraria non è necessariamente un’opera finalizzata alla lettura. O meglio, il fatto che venga letta non è necessariamente lo scopo principale, ma può essere il mezzo per raggiungere un certo fine estetico e artistico che ha in mente l’autore. Per cui, le dimensioni fuori scala delle opere, la prolissità della prosa portata all’eccesso, la ridondanza del testo e la noia sfiancante che questo provoca nel lettore fanno parte di una composizione estetica come accade in molte performance di arte contemporanea, segnate dall’inutilità dei gesti, dalla noia delle ripetizioni, dalla lentezza del tempo della performance e in definitiva dall’assenza di spiegazioni per quel tedio. Inutilità, noia, lentezza, tedio sono elementi dell’estetica contemporanea, elementi usati dagli artisti per rendere gli spettatori l’opera stessa, il loro spaesamento, noia e senso di inutilità la reale espressione artistica.

Vollmann fa qualcosa di molto simile a una performance di arte contemporanea quando compone queste opere estreme, mette in secondo piano la lettura e in primo piano lo straniamento del lettore, la vostra noia è parte dell’opera, il vostro orrore è parte dell’opera, il senso di morte che vi sentite addosso è parte dell’opera che Vollmann ha disegnato intorno a voi, uno per uno.

In bocca al lupo.

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Questa voce è stata pubblicata il 3 ottobre 2022 da in Autori, Editori, Minimum Fax, Vollmann, William T. con tag , , , , .

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