2000battute

«Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.» –Tomasi di Lampedusa

NA – Titoli e autori omessi

 

NA – Titoli, autori ed editori omessi

Ragionare sulla trasformazione e il ruolo della fotografia nella moderna società digitale è importante perché rappresenta un passaggio chiave per comprendere la modernità e io da tempo cerco saggi che approfondiscano il tema. Lo approfondiscano però in modo competente e dettagliato e siano scritti e organizzati bene. Ho letto due libri recentemente, di uno degli autori mi era capitato di leggere qualche articolo ed è senza dubbio persona competente.

Ho omesso titoli, autori ed editori per tre ragioni:

  • ho un giudizio drasticamente negativo verso questi due libri, ma trattandosi di piccolissimi editori, libri con tiratura minima, posizione periferica e autori che di solito si occupano di altro, personalizzare non è interessante;
  • le argomentazioni che mi interessa presentare sono generali ed esulano dai risultati a mio giudizio rovinosi di un paio di piccoli libri minori, quindi personalizzare rischia non solo di essere non interessante ma anche deleterio;
  • infine li ho omessi per fare una sceneggiata da guitto, sempre una parte importante del mio divertimento.

Bene, ciò detto, proseguo. Con il primo libro gli autori tentano, anche con coraggio bisogna dire, di prendere di petto la questione del ruolo e natura della fotografia divenuta altro, in un contesto digitale che da dieci, forse quindici anni, è permeato di fotografie, in una quantità, frequenza, modi, forme, usi, ruoli e significati senza precedenti e pochi collegamenti con quello che la fotografia tradizionale è stata e ha rappresentato, tanto che, giustamente gli autori sentono il bisogno di chiamarla con un termine nuovo, introducendo alcune possibilità e cercando di argomentarne le differenze semantiche, differenze che però non hanno nessuna importanza, tanto che forse pure pseudofotografia andrebbe bene o qualunque altro termine inventato può andare bene purché non si chiami più fotografia quello che avviene con le fotocamere degli smartphone. Come attacco alla questione sarebbe anche condivisibile, poi però serve il resto, i contenuti, i ragionamenti, l’analisi e soprattutto la forma del discorso visto che un discorso senza forma non ha contenuti né senso, tranne in alcuni eccezionalissimi casi nei quali per altro la mancanza di forma e senso è costruita con gran cura  per essere forma e senso. Quindi, innanzitutto serve dare una forma al discorso. Secondo, serve organizzare i contenuti. Cioè in breve bisogna saperlo scrivere un saggio. Fatto questo, si può iniziare a discutere dei contenuti.

Purtroppo il discorso che viene presentato non ha una forma, non ha contenuti organizzati secondo un criterio discernibile, e in più ci sarebbe parecchio da lavorare sui contenuti stessi. Sforzandosi di pescare frammenti di discorso, si intuisce che sui temi più propri della storia dell’arte e storia della fotografia, gli autori hanno una conoscenza solida. Il problema è che tutto il resto non va a partire dallo stile espositivo inadeguato. Il secondo libro è pure peggio, ho letto solo 50 pagine e le ho trovate confuse e mal fatte in maniera inaccettabile. Fossero stati prodotti di uso comune acquistati online li avrei resi immediatamente.

Questo è quanto voglio dire per introdurre quello di cui voglio invece parlare, sommariamente e con argomentazioni insufficienti come è ovvio, ovvero il motivo per cui questi due saggi non rappresentano un’eccezione nel panorama editoriale della saggistica italiana, ma la sua cifra stilistica e del motivo dell’apparente paradosso per cui studiosi di solide conoscenze settoriali, quando si cimentano con il saggio divulgativo e non accademico non di rado producono risultati rovinosi. Esempi virtuosi ma pur sempre criticabili come Carlo Rovelli e Alessandro Barbero, per citare due tra i più popolari, sono eccezioni, e nessuno dei due maneggia un tema viscido come la contemporaneità sociotecnica, ma entrambi godono del favore della prospettiva storica.

Iniziamo dalla tendenza a gravemente sottovalutare la difficoltà di analizzare la contemporaneità ibrida tra società, tecnologia, mercato, cultura, arte e informazione. Questo è il peccato capitale della gran parte degli autori italiani di analisi sociotecniche che pagano il crescente, drammatico provincialismo nazionale cercando di strafare invece di procedere per sottrazione. In qualunque società di cultura marginale troverete che strafare e declamare è lo stile di parecchi intellettuali di successo. Questo è diretta conseguenza della mancanza di contraddittorio, di confronto, di critica, di standard qualitativi consolidati nella forma, stile, organizzazione e argomentazioni, della mancanza di tradizione e abitudine a valutare un discorso intellettuale sulla base del ragionamento, dell’esposizione e dei contenuti, tutti insieme queste parti coese, dell’abitudine a vivere, sopravvivere ed emergere in una società intellettualmente e culturalmente inquinata da affarismi, esibizionismi, burocrazia, approssimazione, populismo e senza o con pochi anticorpi. Una società che peggiora in tutte queste caratteristiche, invece di migliorare, come ben testimoniato dal recente periodo di pandemia durante il quale il peggio dell’informazione e del dibattito è stato fornito proprio da coloro che avrebbero dovuto chiarire e spiegare, medici, virologi, epidemiologi, veterinari, matematici, fisici, informatici, scienziati di ogni genere e specie che hanno dimostrato in maniera inequivocabile la pochezza intellettuale e culturale di cui dispongono e l’incontrollabile pulsione a esibirsi e a sgomitare. E questa non è stata solo l’eccezione di casi isolati montati dalla stampa, ma la norma, generalizzata e diffusa. Peggiori anche dei cosiddetti No-Vax, per lo meno coerenti nella loro pericolosa ignoranza.

È tipico, e puntualmente si manifesta, lo stile declamatorio. Un autore di saggi dovrebbe essere in grado di compiere un esercizio di rilettura professionale migliore della media dei lettori a cui si rivolge. Oppure chiedere a qualcuno che lo faccia seriamente. Se non lo sa fare o non è in grado di riconoscere questa esigenza, non si vede come possa essere un autore di saggi. Stesso discorso si può fare per un editore. Ogni volta che si trova una frase in stile declamatorio, tutta la pagina va strappata e gettata nella spazzatura, senza questioni. Ne rimarrebbero poche nella gran parte dei saggi pubblicati.

Con lo stile declamatorio viene sempre anche la supponenza, intesa letteralmente, senza giudizi morali, ovvero la troppa fiducia in ciò che si suppone di sapere. Ad esempio, è noto da tempo il problema, da un lato, dell’eccesso di informazione che si riceve dai social media, e dall’altro della sua frammentarietà e inaffidabilità, è uno dei temi più discussi, tutti lo conoscono. Un autore che si cimenti con analisi sociotecniche della contemporaneità digitale si presume sia assolutamente consapevole di quel problema, eppure in molti dimostrano il contrario con sistematica puntualità, argomentando come se avessero letto qualche discussione su Twitter, magari ci si fossero pure gettati dentro a forza di insulti e trivialità e le avessero prese per l’interpretazione autentica della modernità, il che è l’atteggiamento paradigmatico del moderno ignorante dei processi della modernità. Un paradosso per nulla nuovo né raro.

Un esempio, anche questo purtroppo tipico per quanto viene propinato fino alla noia dai saggisti italiani, è il Surveillance Capitalism, titolo fenomenale del marketing editoriale per un mediocrissimo libro di Shoshana Zuboff, brandito un numero ormai incalcolabile di volte per introdurre la più superficiale delle analisi: siamo sorvegliati, la tecnologia ci sorveglia, ci fanno un sacco di soldi a sorvegliarci, è tutta colpa del capitalismo. È un discorso trito e strumentalizzato all’infinito per argomentare qualunque cosa, dal discorso ragionevole alla iperfesseria, che è come esclamare che i petrolieri inquinano pensando di avere scoperto una verità sepolta da millenni, o che i capitalisti pensano solo agli affari loro, quando trovare qualcuno che non pensi agli affari propri è più difficile che trovare una pepita d’oro nel Po. Eppure in Italia, dopo dieci, quindici anni, forse pure di più, che è cosa nota a chiunque che il grande business dell’industria digitale degli anni 2000 è raccogliere dati personali, è pieno di intellettuali, saggisti, accademici, che strillano Ci spiano! immaginando per sé una forma di superiorità morale nell’avere strillato una tale iperbolica banalità. Questi non sono dettagli di forma, ma è lo specchio della sostanza e dei processi culturali in atto che hanno finito per ridurre a caricatura di se stessi, sotto lo slogan di diritti civili digitali, anche quel poco che rimaneva dei movimenti per i diritti civili del Novecento.

Ulteriore punto tragico o tragicomico, se si è persone di spirito, è il senso di superiorità morale che emerge dai discorsi, e che ovviamente va insieme allo stile declamatorio e alla supponenza delle argomentazioni. La cosa vista dall’esterno dei confini nazionali è senz’altro tragicomica, dall’interno la comicità si attenua. È una scena da paese culturalmente e intellettualmente sottosviluppato, l’intellettuale o il politico o lo scienziato o l’industriale che si erge a esempio morale dichiarando banalità cristalline nella convinzione di dire qualcosa di eclatante. Una scena che te la immagini con un marajà indiano o un capo tribale, gente isolata priva di riferimenti globali ma con potere locale. E invece avviene qui, nel paese della normalità delle statue a Padre Pio e Indro Montanelli, immagino anche a Berlusconi in un futuro prossimo o remoto, accade continuamente, nei saggi, sulla stampa, nelle interviste, sui social, ovunque quando si parla di modernità sociotecnica. Siamo il paese che da decenni parla, fa convegni e pubblica di nativi digitali e di agende digitali, categorie sovrane della nullità intellettuale, di tecnologie per la didattica vecchie di dieci anni già nel momento in cui appaiono, il paese che intervista ancora quelli che avevano per le mani il Facebook italiano, il Google italiano mancato per un soffio ma con la benedizione del vescovo e del sindaco, il vorrei ma non posso però me ne vanto, il paese del garante della privacy, agenzia la cui utilità è pari all’agenzia per la selezione delle razze equine che emana divieti che coprono di ridicolo l’intero paese. È una galleria degli orrori che potrebbe procedere a lungo, tutti elementi indiziari di uno stato di crisi profondo, antico e gravissimo.

C’è altro. Alzi la mano chi pensa che i social, media o network fate voi, siano pieni di imbecilli. Tutte mani alzate, benissimo. Ora alzi la mano chi pensa che in un centro commerciale stipato di qualche migliaio di persone vi siano un sacco di imbecilli. Ancora tutte mani alzate. E nei talk show o nei grandi fratelli televisivi non è pieno di imbecilli? Tutti d’accordo. Perchè in Parlamento no? O tra gli industriali? Tra i sindacati? Tra gli scrittori, alzi la mano chi pensa che ci siano non pochi scrittori evidentemente imbecilli. Ne vedo parecchie. Bene. Quindi, argomentare una qualunque tesi o ragionamento dicendo che ci sono degli imbecilli equivale a non avere niente da dire sul piano dei contenuti, e avere un gravissimo problema di forma del discorso del quale non ci si accorge.

Eppure è una delle argomentazioni più diffuse tra i saggisti e i commentatori italiani di modernità sociotecnica. E anche questa va insieme allo stile declamatorio, alla supponenza delle argomentazioni e alla presunzione di superiorità morale. Dagli un po’ di tempo a un intellettuale italiano medio e immancabilmente userà l’argomentazione degli idioti su internet pensando che se l’ha detto Eco, perché non dovrebbe farlo anche lui o lei. Di nuovo torniamo allo stesso problema dell’isolamento culturale, dell’ignavia intellettuale, della provincializzazione non più strisciante ma galoppante. Si argomenta ripetendo slogan, nella convinzione che altro non ci sia da dire. La definizione esatta di cultura settaria.

Infine prendiamo in considerazione lo stile espositivo, la pura forma. Esistono varie scuole di pensiero, da quella più minimalista al kitsch, per cui scegliere la forma da dare al discorso è una questione stilistica che però non è slegata dai contenuti. Ad esempio, un saggio non è il testo migliore per, diciamo, enfatizzare la musicalità della frase fino al punto da svuotarla di senso compiuto. Anche senza giungere a certi estremi, la forma espositiva di un saggio è la diretta risposta a una domanda semplice: a chi si rivolge l’autore?

Qualunque autore questa domanda se la deve porre e deve avere una risposta chiara. Il problema è che in molta saggistica italiana questo non sembra essere il caso o forse sembra che la risposta sia che l’autore si rivolge esclusivamente al proprio ego, narcisistico, chiuso in un buco dal quale scalcia e strepita. Oppure all’altro estremo, sembra che si rivolga a un gruppo di deboli di mente da ammaestrare. Sono due versioni di una stessa natura tribale e retrograda.

A dispetto di questa orribile consuetudine italiana, in generale esiste e prende forza qualcosa che si chiama “rispetto per il lettore”, che ha effetti molto concreti, il primo dei quali è che non si leggono saggi e altri testi che dovrebbero avere natura informativa. La reazione di rifiuto è completamente giustificata, anzi io direi che è la reazione matura ed equilibrata da avere di fronte ad autori privi della consapevolezza che quando si propone un’opera per la lettura, si deve come minimo offrire rispetto al lettore. A partire dallo stile espositivo, dalla forma del testo e dall’organizzazione dei contenuti. Saggi con stili espositivi narcisisti o paternalisti, forme del testo inutilmente arzigogolate e improntate a strafare e organizzazioni sciatte dei contenuti sono tutti motivi per rifiutare la lettura, e tanto piú questi criteri vengono adottati, tanto meglio per tutti.

Lo stato della saggistica di una nazione, molto più della sua letteratura, è un termometro dello stato di salute intellettuale e culturale di quella nazione, quanto sta capendo del suo ruolo nel mondo e dei processi che trasformano il mondo e se stessa. Una saggistica incapace di parlare della modernità con forma, organizzazione e contenuti di qualità –  qualità stilistica,  argomentativa e culturale – non è tanto da biasimare per sé o per puntare il dito contro questo o quell’autore, questo o quell’editore, irrilevanti singolarmente, ma è da biasimare la nazione intera, istituzioni e persone, tutte insieme responsabili per lo stato di incapacità di capire, incapacità di discutere, incapacità di riflettere.

Nota: immagine senza copyright, Study icons created by PIXARTIST – Flaticon.

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Questa voce è stata pubblicata il 13 aprile 2023 da in Autori, Editori, Omessi, Omessi con tag , , .

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